La Cassazione, con la sentenza 43709/2023, Sez. IV, è tornata sul tema della prescrizione dell’illecito amministrativo dipendente da reato, ai sensi del d.lgs. 231/2001.
Tuttavia, nonostante lo stesso decreto prevede un diverso regime prescrizionale (art. 22), il Giudice di prime cure, nel caso di specie, ha individuato come termine lo stesso previsto per il reato presupposto, ignorando, oltre che la legge specifica in materia, anche due fondamentali principi che regolano la materia: quello di autonomia della responsabilità dell’ente e quello, appunto, della prescrizione quinquennale.
La vicenda traeva origine dalla sentenza con cui il Tribunale di Gorizia dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato tanto per il reato (art 590 c.p.p.) quanto per l’illecito amministrativo (art. 25 septies d.lgs. n. 231/2001), per intervenuta prescrizione.
Il Procuratore generale presso al Corte di Appello di Triste ricorreva per Cassazione sollevando un’unica questione: l’erronea dichiarazione di prescrizione dell’illecito amministrativo cointestato all’ente.
Infatti, l’art. 22 del decreto, sopra richiamato, sancisce chiaramente che “Le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato”. Per quanto attiene la interruzione, invece, stabilisce che “Interrompono la prescrizione la richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e la contestazione dell’illecito amministrativo a norma dell’art. 59. Per effetto dell’interruzione inizi un nuovo periodo di prescrizione”.
La Suprema Corte, ritenendo il ricorso fondato, ha evidenziato il grossolano errore in diritto commesso dal Tribunale di Gorizia, il quale ha confuso la prescrizione del reato presupposto nei confronti dell’imputato persona fisica – e la relativa disciplina – con quella dell’illecito amministrativo contestato all’ente.
I due termini sono evidentemente distinti e non sovrapponibili.
Il Tribunale di primo grado ha erroneamente individuato come disciplina applicabile quella prevista dall’art. 157 c.p. mentre, nel caso in esame, di sarebbe dovuto applicare proprio l’art. 22 d.lgs. 231/2001, in forza del quale, essendo in corso il processo a carico dell’ente (persona giuridica), il decorso del termine quinquennale di prescrizione deve intendersi sospeso, sino alla definizione del processo.
In particolare, il fatto storico risaliva al 19.11.2014 e il 30.01.2019 veniva emesso il decreto che disponeva il giudizio: ciò significa, sostanzialmente, che nel momento in cui viene disposto il rinvio a giudizio, il termine prescrizionale viene interrotto e riprende a decorrere un nuovo termine.
Per dirla in parole ancora più semplici: nel processo a carico degli enti, se la prescrizione non matura durante le indagini, è molto difficile che maturi in un secondo momento.
Ciò che è assodato – e ciò che questa sentenza ci comunica – purtroppo, è che la materia della responsabilità degli enti è ancora sconosciuta a diversi Tribunali di merito: non sapere che esistono due termini e due regimi prescrizionali ben distinti ed ontologicamente diversi è un errore non scusabile.
E se “nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale”, come recita l’art. 5 del nostro codice penale, allora, dall’altro lato, chi applica la legge non può permettersi delle simili sviste.