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La disciplina dei rifiuti e la configurabilità della responsabilità in capo agli enti

Con la sentenza n. 42237 del 14 settembre 2023, la Terza Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata sulla disciplina dei rifiuti e, in particolare, sulla qualificazione delle terre e rocce da scavo, sulla configurabilità del reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. s) D. Lgs. 152/2006 e sulla conseguente insorgenza della responsabilità amministrativa da reato in capo all’ente ai sensi dell’art. 25-undecies, comma 2, lett. b), n. 1 del decreto 231 del 2001.

La vicenda traeva origine dalla condanna di due imputati-persone fisiche per il reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a) D. Lgs. 152 del 2006 e di due società, a loro facenti capo, in ordine all’illecito amministrativo da reato di cui all’art. 25-undecies, comma 2, lett. b), n. 1), D. Lgs. 231 del 2001.

Avverso tale sentenza proponevano ricorso per Cassazione tanto le persone fisiche quanto gli enti dolendosi, in particolare, della violazione di legge e del vizio di motivazione in relazione:

I giudici di legittimità, in primo luogo, hanno ritenuto necessario far luce sulla corretta qualificazione dei materiali in imputazione quali rifiuti anziché quali sottoprodotti.

Il Collegio ha pertanto evidenziato come l’art. 186 TUA preveda che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, ottenute quali sottoprodotti, possano essere utilizzate per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati in presenza di una serie di concomitanti requisiti.

Ai sensi del comma 3 del medesimo articolo, ove la produzione di terre e rocce da scavo avvenga nell’ambito della realizzazione di opere o attività non soggette a VIA ma a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività (come nel caso in esame), la sussistenza dei requisiti di cui al comma 1, nonché i tempi dell’eventuale deposito in attesa di utilizzo, che non possono superare un anno, devono essere dimostrati e verificati nell’ambito della procedura per il permesso di costruire, se dovuto, o secondo le modalità della dichiarazione di inizio di attività (DIA).

La Corte, dunque, richiamando numerosi precedenti giurisprudenziali ormai granitici, ha ribadito che l’applicazione della disciplina alle terre e rocce da scavo, nella parte in cui sottopone i materiali da essa indicati al regime dei sottoprodotti e non a quello dei rifiuti, è subordinata alla prova positiva, gravante sull’imputato, della sussistenza delle condizioni previste per la sua operatività, in quanto trattasi di disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria.

Tale prova deve riguardare tutti i presupposti previsti dalla legge e, nella vicenda de qua, in assenza di adeguata prova i materiali ricadevano nella sfera di applicabilità della disciplina dei rifiuti, discendendo, conseguentemente, l’applicabilità della nozione di “produttore di rifiuti” inteso come colui al quale sia giuridicamente riferibile tale produzione e la nozione di “gestione” degli stessi ai sensi dell’art. 183, lett. n), d.lgs. 152/2006, che comprende la raccolta, il trasporto, il recupero, la cernita e lo smaltimento degli stessi.

Attività, queste ultime, che necessitano di apposita autorizzazione, la quale, nel caso di specie, difettava.

Alla luce di tali rilevanti considerazioni circa la non palese insussistenza del reato presupposto della responsabilità da reato, tuttavia, gli Ermellini hanno ritenuto di dover annullare con rinvio la sentenza pronunciata nei confronti degli enti poiché nulla veniva chiarito nel corpo motivazionale, né in punto di sussistenza o meno in capo agli enti imputati dei modelli di organizzazione e gestione di cui all’art. 6 d.lgs. 231 del 2001, la cui adozione ed efficace attuazione limita in modo consistente l’ambito di responsabilità dell’ente, anche per i fatti commessi dagli apicali, né in ordine al requisito indispensabile dell’interesse o vantaggio in capo agli stessi enti, che dall’imputazione risulterebbe connesso al risparmio di spesa conseguito grazie al mancato smaltimento, in maniera regolare, del rifiuto.

In tal senso, la sentenza si risolve in un mero automatismo, non consentito, tra la commissione del reato presupposto e la responsabilità dell’ente.

Dunque, si ribadisce, ancora una volta, che al fine dell’insorgenza di responsabilità in capo agli enti a seguito della commissione di un reato presupposto da parte di un proprio apicale è necessario che si accerti sia la mancata adozione di un modello di organizzazione e gestione adeguato sia la sussistenza di un interesse o di un vantaggio conseguito dall’ente che discenda dalla commissione del reato stesso.

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