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Impatto della Riforma Cartabia sul processo a carico degli enti

È ormai noto che il D. Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, contenente le disposizioni in materia penalistica della c.d. riforma Cartabia, ha introdotto una serie di novità all’interno del codice di procedura penale, interessando una pluralità di istituti fondamentali del processo penale.

La novella legislativa, però, non si è preoccupata di prevedere un coordinamento con la disciplina del procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato.

Ciò nonostante la legge delega 27 settembre 2021, n. 134, con la quale il Governo ha ricevuto la delega per la riforma Cartabia, prevedesse anche interventi normativi volti a coordinare le novità introdotte nel codice di procedura penale con gli altri plessi normativi che si riteneva potessero essere coinvolti di riflesso. Nello specifico, l’art. 1 conferiva la delega al Governo per modificare la formulazione <<delle disposizioni contenute in leggi speciali non direttamente investite dai principi e i criteri direttivi di delega in modo da renderle ad essi conformi>>.

Tale delega, ad oggi, è rimasta inattuata e nonostante ciò la riforma Cartabia implica un impatto inevitabile anche sulla disciplina relativa al processo a carico degli enti.

Norma di raccordo tra le disposizioni del codice di procedura penale e quelle dettate per il processo a carico degli enti è lart. 34 del D. Lgs. 231 del 2001, a norma del quale la disciplina del codice di procedura può etero-integrare quella prevista nel capo III del citato decreto – dedicato alle norme processuali – in quanto compatibile e per quanto in esso non disciplinato.

La formulazione dell’art. 34 comporta che le norme processuali contenute nel D. Lgs. n. 231 del 2001 si pongano in rapporto di specialità rispetto a quelle del codice di procedura, potendo pertanto riconoscersi alle prime una priorità applicativa e riservando alle seconde un ruolo integrativo.

E’ chiaro, inoltre, che l’opera di coordinamento lasciata all’interprete s’impone anche alla luce dell’interpretazione che la dottrina ha dato circa l’operatività dell’art. 34. Si è osservato, infatti, che il rinvio operato alle norme del codice di procedura penale non si riferisce soltanto alla formulazione originaria del codice e all’assetto processuale vigente all’epoca dell’introduzione del D. Lgs. n. 231 del 2001, ma si riferisce, altresì alle modifiche subite successivamente dalle medesime disposizioni.

I maggiori dubbi interpretativi si pongono rispetto ai casi in cui il D. Lgs. 231 regoli in modo compiuto un istituto processuale, ma nel farlo riproduca in sostanza la regola codicistica, semmai con mere variazioni terminologiche, rendendo di fatto solo formalmente speciale la disciplina processuale prevista per l’ente.

  • L’obbligatorietà dell’annotazione dell’illecito amministrativo

Il primo istituto che viene in rilievo è l’annotazione dell’illecito amministrativo ed il rapporto con il suo corrispondente nella disciplina codicistica individuabile nell’iscrizione della notizia di reato.

La riforma Cartabia ha modificato l’art. 335 c.p.p. che disciplina l’iscrizione e la tenuta da parte del P.M. dei registri delle notizie di reato, incidendo proprio sul concetto di notizia di reato definendola quale: <<rappresentazione di un fatto determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi ad una fattispecie incriminatrice>>.

Formalizzati i requisiti della notizia di reato, il Legislatore ha permesso di meglio definire i parametri dell’obbligo di iscrizione che sussiste in capo al pubblico ministero. La definizione del contenuto dell’obbligo di iscrizione consente da una parte, una più puntuale attuazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale sancito dall’art. 112 Cost., del quale l’iscrizione costituisce l’atto prodromico e necessario; dall’altra, formalizzando lo status di indagato agevola l’individuazione del corretto momento in cui sorge la notitia criminis.

Il conseguente obbligo di iscrizione è utile a determinare il termine di scadenza delle indagini, consentendo di individuare il dies a quo.

Nel sistema della responsabilità amministrativa a carico degli enti, l’istituto dell’iscrizione trova il suo corrispondente nell’annotazione. Questa riflette la stessa funzione che nel codice assolve l’iscrizione della notizia di reato. Ciò è reso ancora più chiaro dal richiamo che l’art. 55 del D.Lgs. n. 231 fa all’art. 335 c.p.p.

Nello specifico l’art. 55 prevede che il pubblico ministero annoti immediatamente nel registro delle notizie di reato la notizia dell’illecito amministrativo dipendente da reato commesso dall’ente, unitamente agli elementi identificativi dello stesso e alle generalità del suo legale rappresentante. L’annotazione determina in capo all’ente le medesime garanzie riconosciute all’indagato, in quanto compatibili e, tra queste, proprio l’individuazione del dies a quo da cui dedurre i termini per le indagini preliminari.

Tuttavia, non si può ritenere che l’annotazione e l’intero procedimento a carico dell’ente si pongano in relazione di accessorietà rispetto all’iscrizione della notizia di reato. E ciò, in ragione delle regole generali che informano l’intero sistema descritto dal D. Lgs 231, secondo le quali la responsabilità amministrativa dell’ente è autonoma rispetto a quella della persona fisica che ha commesso il reato presupposto, come previsto dall’art. 8.

Di conseguenza, autonomi saranno anche i rispettivi procedimenti.

Le questioni sorte circa l’annotazione sono speculari a quelle che hanno interessato dottrina e giurisprudenza relativamente all’interpretazione del dettato dell’art. 335 c.p.p. nella sua formulazione previgente alla riforma Cartabia.

Tali interrogativi sono riconducibili essenzialmente a due ordini di questioni: da una parte se possa affermarsi l’obbligo in capo al pubblico ministero di iscrizione e, soprattutto, se lo stesso possa essere trasposto anche nel sistema del D. Lgs. n. 231 del 2001, venendo così ad affermarsi l’obbligo di annotazione. Dall’altra, quali siano i contenuti di tale obbligo e quindi i caratteri in grado di definire il concetto di notitia criminis in ambito di responsabilità amministrativa dell’ente.

Con riferimento al primo interrogativo, il tema che si pone è quello dell’obbligatorietà dell’annotazione dell’illecito amministrativo, e quindi se il pubblico ministero in presenza dei presupposti, sia gravato da tale obbligo. Tema, questo, controverso anche nel dibattito giurisprudenziale, relativo all’iscrizione a carico delle persone fisiche di cui all’art. 335 c.p.p., dove è stato rilevato, a più riprese, come gli adempimenti previsti dall’art. 335 c.p.p. sono di attribuzione esclusiva del pubblico ministero, destinatario, al ricorrere dei presupposti, di un obbligo e non di un potere discrezionale, e le cui scelte sono sindacabili non sul piano processuale, ma esclusivamente su quello disciplinare.

Con riferimento all’annotazione dell’illecito amministrativo dipendente da reato, a parere della dottrina maggioritaria, militano contro l’affermazione dell’obbligo due considerazioni. In primo luogo, la circostanza per cui, riconoscendo natura di tertium genus alla responsabilità amministrativa degli enti, il principio di obbligatorietà dell’azione affermato dall’art. 112 Cost. non può essere ad essa esteso, dovendo lo stesso limitarsi ai soli procedimenti a carico di persone fisiche. In secondo luogo, non potrebbe affermarsi un obbligo di annotazione speculare a quello di iscrizione in quanto, nel sistema previsto dal D. Lgs. n. 231 del 2001, il regime dell’archiviazione dei procedimenti è sottratto al sindacato del giudice. L’unico controllo dell’inazione è di natura gerarchica e comunque interna al medesimo ufficio del pubblico ministero.

Con riguardo alla seconda tra le questioni poste – quella relativa al contenuto dell’obbligo di annotazione e, soprattutto, all’individuazione dei caratteri definitori della notitia criminis – la dottrina ha individuato nel concetto di notizia di reato le componenti di “consistenza” e “contenuto”, dove per consistenza si intende il livello epistemologico che l’informazione contenuta nella notizia di reato deve avere, e per contenuto s’intende il grado di conformità della stessa ad una fattispecie tipica di reato.

Con riferimento all’istituto dell’annotazione dell’illecito amministrativo la dottrina maggioritaria ha ritenuto che lo standard di elementi indiziari idoneo a rendere l’illecito suscettibile di annotazione non si spinga fino all’individuazione di un fumus di responsabilità in capo all’ente. Viene considerato sufficiente ai fini dell’annotazione che il pubblico ministero abbia notizia della commissione di un fatto di reato previsto tra quelli che costituiscono presupposto della responsabilità amministrativa degli enti di cui agli artt. 24 e seguenti del D. Lgs. n. 231 del 2001, e che questo sia commesso nell’ambito di attività dell’ente.

Relativamente alla possibilità di affermare l’obbligatorietà dell’annotazione dell’illecito amministrativo, l’intervento del legislatore sulla disciplina generale può dirsi abbia delimitato gli ambiti di discrezionalità del pubblico ministero in genere, e, in particolare le valutazioni del momento dell’iscrizione, rendendo maggiormente evidente la sussistenza dell’obbligo di iscrizione.

In ragione del rinvio, tanto generale operato dall’art. 34, quanto speciale nel testo dell’art. 55 del D. Lgs. n. 231 del 2001, alla disciplina del codice di rito, sembra che la sussistenza di tale obbligo debba affermarsi anche con riferimento all’annotazione dell’illecito amministrativo dipendente da reato.

A ulteriore sostegno di tale tesi, soccorre la considerazione per cui il fatto storico in grado di fondare la responsabilità tanto della persona fisica, quanto dell’ente è il medesimo, e il suo accertamento necessita di seguire principi il più uniformi possibile.

La sussistenza dell’obbligo pare quindi potersi affermare, non tanto in ragione dell’estensione del principio di obbligatorietà dell’azione all’accertamento della responsabilità amministrativa dell’ente, quanto piuttosto all’espressa previsione dell’art. 55 d. lgs. n. 231 del 2001, oggi da interpretare, in ragione del puntuale rinvio alla norma codicistica, quale norma che impone un obbligo di annotazione.

Con riguardo al contenuto dell’obbligo di annotazione e, quindi, all’individuazione dei presupposti al ricorrere dei quali il pubblico ministero dovrebbe procedere all’iscrizione, si deve necessariamente considerare che il novellato art. 335 c.p.p., tipizza i presupposti dell’iscrizione, definendo il concetto di notitia criminis quale rappresentazione di un fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice.

Alla luce di ciò e della necessaria integrazione della disciplina dell’annotazione prevista dall’art. 55 D. Lgs. n. 231 del 2001 con quella prevista all’art. 335c.p.p., sembra potersi affermare che, a seguito della riforma Cartabia, l’annotazione dell’illecito amministrativo dipendente da reato debba effettuarsi quando dagli atti in possesso del pubblico ministero possano scorgersi i tratti di tipicità di una fattispecie incriminatrice fondante la responsabilità amministrativa da reato dell’ente.

Com’è noto, costituiscono requisiti tipici della responsabilità amministrativa dell’ente:

  1. la commissione di uno dei reati c.d. presupposto indicati dagli artt. 24 e ss. del D. Lgs. n. 231 del 2001;
  2. il fatto che lo stesso sia stato commesso da un soggetto che nell’ente ricopre uno tra gli incarichi previsti dall’art. 5 del menzionato decreto;
  3. che tale soggetto abbia commesso il reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente.

Tra le principali e più note modifiche apportate dalla riforma Cartabia vi è poi quella della regola di giudizio in base alla quale il pubblico ministero ed il giudice per le indagini preliminari valutano i casi di inazione o, comunque, di non luogo a procedere, con il chiaro intento di ridurre il numero dei processi che giungano fino alla fase dibattimentale.

Il Legislatore è infatti intervenuto sulla regola di giudizio dettata al co. 3 dell’art. 425 c.p.p., disponendo che il vaglio del compendio investigativo debba oggi essere condotto alla luce, non più della sostenibilità dell’accusa in giudizio, ma valutando se gli elementi acquisiti nel corso delle indagini permettano di formulare una ragionevole previsione di condanna.

Il sistema normativo previsto dal D. Lgs. 231 non descrive esplicitamente i presupposti in presenza dei quali il pubblico ministero debba chiedere l’archiviazione. Tuttavia, dalla lettura degli artt. 58, 59 e 61 si ricava che la regola di giudizio sia quella della non sostenibilità dell’accusa in giudizio.

Il silenzio del Legislatore, sul punto, nel processo a carico degli enti impone di valutare l’alternativa applicazione tra la regola così come prevista dall’art. 61 del D. Lgs. 231, e quindi il regime previgente con la regola della sostenibilità dell’accusa in giudizio o il nuovo criterio della ragionevole previsione di condanna anche agli enti.

Pe raggiungere uno standard di valutazione ordinario si potrebbe, in via interpretativa, ritenere abrogato implicitamente l’art. 61 del D. Lgs. 231 nella parte in cui riproduce la previgente formulazione dell’art. 425 co. 3 c.p.p., e, per l’effetto, ritenere applicabile la disciplina generale riformata e quindi la regola della ragionevole previsione di condanna.

Ad ogni modo, in assenza di un intervento di coordinamento da parte del Legislatore, la via del giudizio di costituzionalità pare essere quella maggiormente percorribile, proprio alla luce delle prescrizioni del delegante, il quale all’art. 1 della L. n. 134 del 2021 imponeva di modificare le disposizioni contenute in leggi speciali non direttamente investite dai criteri direttivi di delega, in modo da renderli ad essa conformi.

 

 

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