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Rappresentanza in giudizio dell’ente e accertamento della responsabilità

La Quinta Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3196/2024 è tornata a pronunciarsi in merito ai profili di incompatibilità con riferimento alla rappresentanza in giudizio dell’ente e all’autonomia dell’ente circa l’affermazione di responsabilità, la quale, peraltro, non può prescindere dall’accertamento della cd. colpa di organizzazione.

La vicenda traeva origine da un procedimento che aveva visto l’affermazione della penale responsabilità degli amministratori di fatto di due società per essersi resi autori di vari reati, tra cui quelli di truffa aggravata dal conseguimento di erogazioni pubbliche, falso e corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio. Da ciò erano discese le contestazioni in capo alle società da questi amministrate per i fatti commessi nel loro interesse e vantaggio.

Si procedeva, pertanto, alla proposizione di due distinti ricorsi per mezzo dei quali, le società ricorrenti si dolevano, attraverso più motivi, della erronea ritenuta sussistenza dei contestati illeciti amministrativi per inosservanza dei criteri di imputazione oggettiva e soggettiva, in particolare, stante la mancata prova circa il requisito della colpa di organizzazione, e della nullità degli atti del processo, per una delle due società, derivante dalla violazione della disciplina circa la rappresentanza dell’ente, avendo provveduto l’amministratore di fatto, imputato per il reato presupposto, a nominare il difensore di fiducia della società.

Gli Ermellini, chiamati a pronunciarsi sulle esposte doglianze, analizzando in primo luogo il tema della rappresentanza dell’ente, hanno richiamato i consolidati precedenti pronunciati dalle Sezioni Unite e dalla medesima Quinta Sezione Penale, in forza dei quali il rappresentante legale indagato o imputato del reato presupposto della responsabilità addebitata alla persona giuridica non può provvedere, data tale incompatibilità, alla nomina del difensore dell’ente, per il generale divieto di rappresentanza posto ai sensi dell’art. 39 del D. Lgs. 231 del 2001.

Incompatibilità, quest’ultima, che deriva dalla presunzione circa la sussistenza di un conflitto di interessi tra l’ente e il suo rappresentante destinata ad assumere rilievo già nel primo atto di competenza di quest’ultimo, ovverosia la scelta del difensore di fiducia e procuratore speciale dell’ente, in assenza del quale il soggetto collettivo non può validamente costituirsi.

Per ciò che concerne gli effetti di una tale incompatibilità, ai sensi dell’art. 39 cit. questa assume il carattere dell’assolutezza e, dunque, il rappresentante incompatibile non può compiere alcun atto difensivo nell’interesse dell’ente e, ove li abbia già posti in essere, dovranno considerarsi inefficaci, ivi incluso, l’atto di nomina del difensore di fiducia. Ferma la possibilità per l’ente, rilevata l’incompatibilità, di provvedere a nominare un rappresentante ad hoc che provvederà a nominare il difensore, il quale verrà, altrimenti, nominato d’ufficio dal giudice.

In secondo luogo, la Corte ha trattato il tema dell’affermazione di responsabilità in capo all’ente a seguito di una declaratoria di intervenuta prescrizione del reato presupposto, affermando, in tal senso, che ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. b), del D. Lgs. 231/2001, deve procedersi all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e vantaggio l’illecito si assume commesso, senza, però, poter prescindere da una verifica circa la sussistenza del fatto di reato.

Difatti, in forza del principio di autonomia della responsabilità dell’ente, disciplinato dall’art. 8 cit., per potersi procedere ad un’affermazione di responsabilità in capo alla persona giuridica non è imprescindibile l’accertamento di responsabilità penale individuale ma è sufficiente un mero accertamento incidentale da cui risultino integrati i presupposti oggettivi e soggettivi di cui agli artt. 5, 6, 7 e 8 D.lgs. 231/2001.

Ciò posto, in tema di responsabilità dell’ente, la Corte ha ribadito il condiviso orientamento secondo cui non è sufficiente la mera mancanza o inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione, come affermato nel caso di specie dalla Corte territoriale, essendo invece necessario provare la cd. colpa di organizzazione.

Spetta al giudice espletare un giudizio di idoneità dei modelli di organizzazione e gestione adottati o che avrebbero dovuto essere adottati sulla base del criterio della prova postuma, proprio dell’imputazione della responsabilità per colpa, in modo tale da verificare se il comportamento alternativo lecito avrebbe comportato l’eliminazione o la riduzione del pericolo di verificazione dell’illecito del tipo di quello posto in essere.

Attraverso tale accertamento in concreto si deve, dunque, verificare se il reato della persona fisica rappresenti la concretizzazione del rischio che la norma cautelare organizzativa violata mirava a evitare. Solo dopo l’effettuazione di un tale accertamento, in combinato disposto con il rispetto degli altri criteri di imputazione previsti dal decreto 231, si potrà ritenere responsabile l’ente.

Questi i principi di diritto ribaditi dai giudici di legittimità e, ritenuti applicabili nel caso di specie, sulla scorta dell’affermata nullità assoluta che ha investito la nomina del difensore di fiducia di una delle due società, la Corte ha ritenuto di annullare senza rinvio la sentenza trasmettendo gli atti al Procuratore della Repubblica presso il competente Tribunale mentre, per ciò che concerne l’affermazione di responsabilità, stante gli errori e le accertate lacune motivazionali, la sentenza è stata annullata con rinvio affinché si proceda a un nuovo giudizio sul punto.

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