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Responsabilità del datore di lavoro e obblighi di vigilanza

Il datore di lavoro può assolvere l’obbligo di vigilare sull’osservanza delle misure di prevenzione adottate attraverso la predisposizione di soggetti a ciò deputati e la previsione di procedure che assicurino la conoscenza da parte sua delle attività lavorative effettivamente compiute e delle loro concrete modalità esecutive, in modo da garantire la persistente efficacia delle misure di prevenzione scelte a seguito della valutazione dei rischi.

Con la sentenza n. 51455/2023, la IV Sez. della Suprema Corte di Cassazione torna ad occuparsi del tema della responsabilità del datore di lavoro, soffermandosi in particolar modo sulle modalità attraverso cui quest’ultimo può adempiere all’obbligo di vigilanza sul rispetto delle norme di sicurezza a tutela dell’incolumità dei propri dipendenti.

Al fine di comprendere la pronuncia in commento occorre riepilogare brevemente i fatti.

La Corte di appello di Firenze, confermando la sentenza di primo grado, aveva ritenuto l’amministratrice unica di una s.r.l responsabile del decesso di un proprio dipendente, il quale durante l’esecuzione di operazioni di disbosco di una porzione di terreno, precipitava lungo un muro di contenimento riportando gravi lesioni che ne determinavano il decesso.

In particolare, i giudici di merito rimproveravano all’imputata di non aver delegato ad alcuno le funzioni di addetto alla materia infortunistica e responsabile della sicurezza e di essersi disinteressata circa gli aspetti organizzativi del lavoro dei suoi dipendenti presso il cantiere, omettendo ogni controllo sul rispetto delle norme di sicurezza poste a tutela della loro incolumità.

Per tale ragione la Corte d’appello condannava l’imputata per il reato di omicidio colposo e, al contempo, riteneva la società responsabile dell’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies del d.lgs. n. 231/2001.

Avverso la sentenza del giudice di appello presentava ricorso il difensore dell’imputata, evidenziando come, in realtà, il compito di individuare gli strumenti necessari a fronteggiare il rischio sul luogo di lavoro fosse stato conferito, attraverso delega di funzioni, ad altro garante, ossia al preposto al cantiere, il quale, accettando l’incarico e la corrispondente più elevata retribuzione, aveva assunto la responsabilità di organizzare il lavoro degli operai; di contro, nessuna colpa poteva essere ascritta alla datrice di lavoro, sulla quale, a seguito della delega, residuava esclusivamente il compito di gestire il rischio specifico.

Proponeva ricorso anche l’avvocato della s.r.l., il quale, in estrema sintesi, evidenziava come nessuna carenza organizzativa potesse attribuirsi all’ente, in quanto quest’ultimo aveva attuato ogni misura necessaria a garantire la sicurezza dei propri dipendenti, dotandosi della documentazione attestante l’avvenuta valutazione dei rischi, fornendo dispositivi di protezione individuale, ripartendo le diverse competenze e, infine, predisponendo il POS (Piano operativo sicurezza), al cui interno, peraltro, erano state indicate proprio le tutele da adottare a fronte di terreni scoscesi o scivolosi.

Di conseguenza, ad avviso della difesa, il verificarsi dell’infortunio non dipendeva da una generale colpa organizzativa della società, ma doveva ascriversi all’irregolare organizzazione “in loco delle misure di sicurezza da parte del preposto al cantiere, il quale era deputato alla concreta gestione del rischio previamente e correttamente individuato dall’ente.

La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi in ordine alla vicenda, ha ritenuto di accogliere entrambi i ricorsi.

Per quanto concerne la posizione dell’imputata, i giudici di legittimità hanno escluso che alla stessa potesse essere mosso un rimprovero per essersi “disinteressata” dei profili attinenti all’organizzazione dei lavori, in quanto – come emergeva anche dalla sentenza di primo grado – ella aveva provveduto a gestire il rischio facendone oggetto di valutazione tanto nei DVR (Documento valutazione rischi) che nel POS, individuando le misure idonee ad eliminarlo o ridurlo (in particolare attraverso imbracature di sicurezza e paratie) e ponendo concretamente a disposizione dei propri dipendenti tali presidi.

Inoltre, ad avviso della Suprema Corte, all’imputata non poteva neppure muoversi un rimprovero per “omessa vigilanza” posto che, come affermato a più riprese dalla giurisprudenza, il controllo richiesto al datore di lavoro in presenza di una organizzazione del lavoro estesa e complessa non può essere personale e diretto, ma deve essere affidato ad appositi protocolli, consistenti, ad esempio, in report, controlli a campione, istituzione di ruoli dirigenziali.

In sostanza, ogni qualvolta le dimensioni dell’impresa o altre condizioni concrete rendano idoneo allo scopo solo un controllo a mezzo di ruoli o procedure, è alla predisposizione di essi che occorre guardare per valutare l’adempimento dell’obbligo di vigilanza gravante in capo al datore di lavoro.

Ebbene, proprio alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha ritenuto insufficiente la motivazione posta a fondamento della sentenza di condanna della Corte di Appello di Firenze, in quanto priva di qualsiasi riferimento alle ragioni per le quali, nel caso concreto, non fosse ex ante adeguata l’organizzazione datasi dall’impresa in relazione al controllo sull’operato dei preposti.

Peraltro, i giudici di legittimità hanno evidenziato come, anche a voler ritenere che nel luogo di lavoro si fosse instaurata, con il consenso del preposto, una “prassi contra legem” su cui la datrice di lavoro avrebbe dovuto vigilare (come confermato dalla giurisprudenza in numerose occasioni, tra cui, ex plurimis, Cass, sez. IV, n.26294/2018), allo stesso modo, nessun rimprovero si sarebbe potuto muovere nei suoi confronti in mancanza di prove certe circa l’effettiva conoscenza o conoscibilità di tale prassi.

Per quanto riguarda la responsabilità dell’ente ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, la Suprema Corte ha ritenuto che la sentenza del giudice di merito manifestasse un’indebita sovrapposizione di piani, nella parte in cui edificava la responsabilità della persona giuridica su carenze organizzative e omissioni di cautele “in loco” (afferenti cioè all’organizzazione dell’attività lavorativa svolta presso il cantiere teatro del sinistro), il cui approntamento competeva esclusivamente al datore di lavoro-persona fisica e ai garanti da lui nominati e non all’organizzazione dell’ente nel suo complesso.

Proprio sulla base di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza impugnata, restituendo gli atti alla Corte di appello.

La pronuncia in commento appare particolarmente significativa in quanto ribadisce un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, quando le dimensioni dell’impresa o altre condizioni concrete non consentano un controllo diretto da parte del datore di lavoro, quest’ultimo può assolvere all’obbligo di vigilanza sull’osservanza delle misure di prevenzione adottate attraverso la predisposizione di soggetti a ciò deputati e la previsione di procedure che assicurino la conoscenza da parte sua delle attività lavorative effettivamente compiute e delle loro concrete modalità esecutive, in modo da garantire la persistente efficacia delle misure di prevenzione scelte a seguito della valutazione dei rischi.

Si tratta di un principio nevralgico in materia di sicurezza sul lavoro che permea l’intero sistema e trova fondamento nella lettura combinata di numerose disposizioni del TULS, come ad esempio:

  • l’art. 18, comma 1, lett. b-bis, d.lgs. n. 81/2008, che impone una necessaria articolazione di ruoli e funzioni attraverso la nomina di uno o più preposti per l’espletamento delle attività di sorveglianza;
  • l’art. 16, comma 1, d.lgs. n. 81/2008, in materia di delega di funzioni, che consente al datore di lavoro di trasferire al delegato competenze afferenti alla gestione del rischio lavorativo, conservando un generale obbligo di vigilanza che non impone un controllo momento per momento delle modalità di svolgimento delle singole lavorazioni;
  • l’art. 30, comma 4, d.lgs. n. 82/2008, dedicato al cd. “modello di organizzazione e gestione”, che ha il compito di assicurare un “sistema aziendale” complessivamente orientato all’osservanza dei doveri prevenzionistici, la cui adozione ed efficace attuazione consente di assolvere automaticamente l’obbligo di vigilanza che grava in capo al datore di lavoro ai sensi dell’art. 16, comma 3, d.lgs. n. 82/2008.

Sotto il profilo della responsabilità da reato dell’ente, si segnalano due importanti passaggi della sentenza in commento.

  1. Il primo attiene ai rapporti tra il DVR e il modello organizzativo dell’ente, strumenti fondamentali per la gestione della sicurezza sui luoghi di lavoro, che tuttavia operano su versanti differenti. Infatti, come affermato dai giudici di legittimità, se da un lato il DVR individua i rischi implicati dalle attività lavorative e determina le misure atte ad eliminarli o ridurli, dall’altro, il modello organizzativo previsto dal decreto 231 è strumento di governo del rischio di commissione di reati da parte dei componenti dell’ente, il cui compito, in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, è quello di delineare l’infrastruttura complessiva e stabilire le “precondizioni organizzative” che garantiscono l’osservanza individuale dei doveri prevenzionistici previsti dalla normativa di settore. Si può, dunque, ritenere che il modello organizzativo rappresenti un sistema di gestione e controllo del rischio lavorativo di secondo livello rispetto al documento di valutazione dei rischi.
  2. Il secondo aspetto fondamentale concerne i criteri di imputazione oggettiva su cui si fonda la responsabilità da reato dell’ente ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 231/2001, consistenti nell’“interesse” o “vantaggio dell’ente a fronte della commissione di reati da parte di soggetti incardinati al suo interno. Nel caso di specie, i giudici di legittimità hanno aderito alla tesi, sostenuta dalla giurisprudenza prevalente, secondo cui i criteri di ascrizione della responsabilità dell’interesse e del vantaggio debbano essere visti come alternativi, in quanto “il primo esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; il secondo ha, invece, una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito” (cfr., inter alia, Cass., Sez. un., n. 38343/2014, ThyssenKrupp).

Infine, si sottolinea come, già da tempo, i criteri di imputazione oggettiva siano considerati compatibili con i reati colposi di evento contenuti nel catalogo di reati presupposto della responsabilità dell’ente e, in particolare, con la fattispecie di cui all’art. 25-septies del d.lgs. n. 231/2001, posto che i concetti di “interesse” e “vantaggio” non devono essere rapportati all’evento previsto dalla fattispecie criminosa, ma alla condotta posta in essere dal soggetto agente che, pur non volendo la verificazione dell’evento “morte” o “lesioni” del lavoratore, decide di violare consapevolmente la cautela al fine di trarre un cd. “risparmio spesa” per l’ente.

Con la sentenza in esame, pertanto, la giurisprudenza di legittimità ha avuto l’occasione per ribadire alcuni dei principi più significativi in materia di responsabilità da reato dell’ente e sicurezza sui luoghi di lavoro, concernenti il rapporto tra datore di lavoro e proposto, tra DVR e modello organizzativo, nonché tra il criterio dell’ interesse e quello del vantaggio dell’ente.

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