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Il principio di tassatività e l’interesse e vantaggio dell’ente nei reati associativi

La Terza Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11390 del 24 gennaio 2024, è stata chiamata ad esprimersi sul tema della responsabilità amministrativa dell’ente in relazione al reato presupposto di associazione per delinquere, nonché sulla necessità della prova della sussistenza dell’interesse o vantaggio in capo all’ente con riferimento, esclusivamente, ai reati fine dell’associazione per delinquere inclusi nel catalogo 231.

La questione traeva origine dalla commissione, da parte dell’amministratore di fatto della società ricorrente, quale promotore e organizzatore dell’associazione per delinquere, di delitti concernenti il traffico illecito organizzato di rifiuti speciali. Circostanza, questa, alla base dell’accertamento della responsabilità amministrativa dell’ente per gli illeciti amministrativi di cui agli artt. 24-ter, comma 2 e 25-undecies d.lgs. 231/2001, commessi a far data dal 9 agosto 2009, data di entrata in vigore dell’art. 24-ter d.lgs. cit.

La società proponeva ricorso per Cassazione dolendosi, tra l’altro, dell’insussistenza dei reati presupposto in contestazione, le cui condotte sarebbero cessate nel luglio 2009, in epoca, dunque, antecedente all’introduzione nell’elenco dei reati presupposto di cui al decreto 231 dei reati di criminalità organizzata ad opera dell’art. 24-ter con l. 94/2009 e dei reati ambientali con l’art. 25-undecies intervenuta con l. 121/2011.

Con un ulteriore motivo di doglianza l’ente lamentava la mancanza della prova circa l’interesse o vantaggio nonché dell’ingiusto profitto discendente dai reati in contestazione, difettando, sul punto, un’adeguata motivazione della Corte territoriale. Così come assente risultava, a detta della ricorrente, la motivazione circa la mancata adozione degli adeguati modelli organizzativi da parte della società.

Gli Ermellini, esaminando il ricorso, in primo luogo, hanno affermato l’impossibilità di attestare la responsabilità amministrativa dell’ente ricorrente in relazione al reato di gestione dei rifiuti nei territori nazionali dichiarati in stato di emergenza di cui all’art. 6 dl. 172/2008 in quanto non rientrante tra i reati presupposto di cui agli artt. 24 e ss. del decreto legislativo 231/2001.

La Suprema Corte ha inoltre evidenziato come la Corte di Appello, in spregio al principio di tassatività, ha considerato, ai fini dell’affermazione di responsabilità a carico della società, fattispecie delittuose estranee al catalogo tassativo dei reati presupposto di cui al d.lgs. 231/2001.

In particolare, giova evidenziare che l’elenco dei reati presupposto è stato ampliato introducendo i delitti di criminalità organizzata, con la legge 94/2009, entrata in vigore l’8 agosto del medesimo anno.

Tuttavia, tale intervento normativo non ha comportato l’inserimento tra i reati presupposto anche dei reati fine dell’associazione per delinquere e, nella specie, il contestato reato di cui all’art. 260 d.lgs. 152/2006 ha trovato collocazione nell’ambito dei reati presupposto solo il 16 agosto 2011.

Ciò detto, i giudici di legittimità hanno affermato come, per potersi configurare la responsabilità amministrativa in capo all’ente ex art. 5 d.lgs. 231/2001, il reato presupposto che deve essere stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente può essere solo quello di cui all’art. 416 c.p. e non anche i reati fine dell’associazione per delinquere poiché, diversamente opinando, si andrebbe incontro ad un’inammissibile violazione del principio di tassatività, non facendo parte, i suddetti reati fine, del catalogo di cui agli artt. 24 ss. d.lgs. cit.

Difatti, le condotte concernenti i reati fine potranno esser prese in considerazione solo ove commesse dopo l’entrata in vigore della legge che ne ha comportato l’inclusione nell’elenco dei reati presupposto.

In secondo luogo, la Suprema Corte di Cassazione, riaffermando quanto sostenuto dalle Sezioni Unite nella celebre sentenza Espenhahn, ha ribadito come, ai fini della responsabilità amministrativa degli enti, non sia sufficiente dimostrare la mera commissione del reato presupposto da parte di un soggetto in rapporto organico con la società ma è doveroso dimostrare l’assenza dell’adozione degli idonei modelli organizzativi e la sussistenza della c.d. colpa di organizzazione, discendente dall’inottemperanza dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie per la prevenzione dei reati del tipo di quello realizzato.

Accorgimenti, questi, a cui l’ente può far fronte per il tramite della redazione di un documento che individui i rischi e delinei le misure idonee a prevenirne la verificazione.

Pertanto, spetterà all’accusa dimostrare sia l’esistenza dell’illecito penale commesso dal soggetto in rapporto di immedesimazione organica con l’ente, il quale deve aver agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente medesimo, sia il fatto che l’ente non abbia predisposto gli adeguati canali di prevenzione del rischio. Assurgendo, la colpa di organizzazione, come elemento costitutivo del fatto tipico, quale violazione colpevole della regola cautelare.

Nel caso de quo, gli Ermellini, annullando senza rinvio la sentenza impugnata, hanno evidenziato come la Corte territoriale abbia solo apoditticamente affermato la sussistenza dell’interesse o vantaggio dell’ente senza rapportarli alle condotte inerenti al delitto associativo e al reato di cui all’art. 260 d.lgs. 152/2006.

Allo stesso modo, totalmente assente risulta la motivazione circa la colpa di organizzazione dell’ente e l’esistenza o meno dei modelli di organizzazione e gestione richiesti ai sensi del decreto legislativo 231, emergendo, dunque, una profonda e inaccettabile genericità e contraddittorietà della sentenza di appello.

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