I requisiti oggettivi dell’interesse e vantaggio sono tra loro alternativi e concorrenti, ed esprimono, il primo, una valutazione teleologica del reato da apprezzare ex ante, al momento della commissione del fatto, e il secondo, valutabile ex post sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito.
La Suprema Corte di Cassazione, con una pronuncia della Quarta Sezione Penale del 12 giugno 2024, è tornata ad esprimersi sul tema dei criteri di imputazione oggettiva della responsabilità dell’ente di cui all’art. 5 D.lgs. 231/2001 con particolare riferimento ai reati colposi posti in violazione della normativa antinfortunistica.
La vicenda trae origine dalla condanna di una società per aver commesso l’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies, comma 3, D.lgs. 231/2001 in relazione al reato ex art. 590 c.p. aggravato dalla violazione della normativa sulla sicurezza sul lavoro ai danni del dipendente dell’ente, il quale, nell’espletamento di un’attività lavorativa, scivolava e riportava lesioni.
Avverso la sentenza di condanna, proponeva ricorso la società dolendosi, in punto di presupposto di imputazione oggettiva, della mancanza di connessione tra l’attività svolta dalla vittima e quella dell’impresa. In tal modo, la responsabilità della società sarebbe stata ricollegata ad un’iniziativa estemporanea priva di consapevole violazione delle norme cautelari, anche in considerazione del fatto che, a detta della ricorrente, i lavoratori avevano ricevuto la dovuta formazione riguardo alle mansioni da svolgere.
La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sul punto, ha in primo luogo ribadito come i requisiti oggettivi dell’interesse e vantaggio ex art. 5 cit., siano tra loro alternativi e concorrenti, esprimendo, il primo, una valutazione teleologica del reato da apprezzare ex ante, al momento della commissione del fatto, e il secondo, valutabile ex post sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito.
Tali criteri, inoltre, coerentemente alla diversa conformazione dell’illecito di cui si tratta, vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all’evento, poiché appare più che plausibile che il soggetto violi consapevolmente la cautela o preveda l’evento, pur senza volerlo. Ciò permette di salvaguardare, così, il principio di colpevolezza.
Con particolare riguardo ai delitti colposi per inosservanza delle cautele antinfortunistiche, si è osservato che i due criteri possono essere ravvisati nel risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dei procedimenti e dei presidi di sicurezza o all’incremento di produttività non ostacolata dal rispetto della normativa di prevenzione.
Pertanto, essi possono essere intesi tanto come risparmio di spesa dovuto alla mancata predisposizione dei dovuti presidi, tanto come incremento economico scaturente dall’aumento di produttività, purché si individui un apposito collegamento teleologico tra l’azione del soggetto persona fisica e l’interesse dell’ente.
Altro punto controverso ha riguardato la necessità o meno, per la configurazione della responsabilità dell’ente, che si tratti di violazioni connotate o meno dal carattere della sistematicità.
Gli Ermellini, sulla scorta di quanto suindicato, hanno sostenuto come la suddetta necessità di rinvenire un collegamento tra azione umana e responsabilità dell’ente non impone che vi sia una natura sistematica delle violazioni.
Operando un richiamo alla sentenza Merlino della Corte di Cassazione del 2016 si è precisato che l’interesse dell’ente ricorre quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di far conseguire un’utilità alla persona giuridica, evitando, perciò, che l’ente sia chiamato a rispondere sulla base del mero rapporto di immedesimazione organica.
I giudici di legittimità precisano, però, come risulterebbe ingiustificato ritenere irrilevanti tutte quelle condotte che, pur sorrette da intenzionalità, sol perché episodiche e occasionali, non sarebbero espressive di una politica aziendale di sistematica violazione.
Ciò in considerazione del fatto che la sistematicità presenta connotati di genericità e la ripetizione di più condotte violative di regole cautelari potrebbe non essere espressiva di un modo di essere dell’organizzazione e di una sistematicità nell’atteggiamento anti-doveroso.
A fortiori se si considera che l’atteggiamento finalistico dell’agente fa parte di una deliberazione interna e come tale va analizzato, scongiurando il pericolo di far coincidere un modo di essere dell’impresa con l’atteggiamento di una persona fisica.
Alla luce di tali affermazioni, si può ritenere che l’interesse può sussistere anche in relazione ad una trasgressione isolata, allorché ci si trovi in presenza di altre evidenze fattuali che dimostrino tale collegamento finalistico, neutralizzando il valore probatorio riconoscibile, in via astratta, al connotato della sistematicità.
In conclusione, analizzando il caso de quo, i giudici della Quarta Sezione hanno evidenziato come l’attività posta in essere dal dipendente fosse tutt’altro che imprevedibile e il piano di lavoro fosse sprovvisto dei presidi minimi di sicurezza.
Problema, questo, a cui sarebbe stato possibile ovviare rivolgendosi a maestranze esterne, dotate degli adeguati presidi e scongiurando, così, il rischio concretizzatosi.
Pertanto, risultando impossibile ritenere l’evento estraneo alla organizzazione societaria, rispetto alla quale emerge l’interesse a non rallentare le attività lavorative e a scongiurare l’impiego di maestranze esterne con risparmio dei relativi costi e tempi di produzione, la Suprema Corte ha ritenuto di dichiarare inammissibile il ricorso presentato dalla ricorrente, confermando la sentenza pronunciata dalla Corte territoriale.