Il reato di bancarotta fraudolenta prefallimentare deve configurarsi quale reato di pericolo concreto, in quanto l’atto di depauperamento, incidendo negativamente sulla consistenza del patrimonio sociale, deve essere idoneo a creare un pericolo per il soddisfacimento delle ragioni creditorie.
Questo è quanto si evince dalla sentenza n. 28941 del 18 luglio 2024, V sez. della Corte di Cassazione.
La Corte di Appello di Palermo aveva confermato la decisione di primo grado, con la quale il legale rappresentante e liquidatore di una S.r.l. era stato condannato a tre anni di reclusione per bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, per aver distratto beni strumentali e sottratto scritture contabili della propria società, poi dichiarata fallita.
L’imputato ha presentato ricorso contro tale provvedimento, sostenendo, con un primo motivo, che il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva non potesse ritenersi integrato a causa dell’inoffensività della condotta, dovuta al valore pressoché nullo dei beni sottratti. Inoltre, con un secondo motivo, il ricorrente ha evidenziato come nella sentenza impugnata non fosse stata adeguatamente motivata la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione, consistente nel dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori.
La Suprema Corte ha ritenuto fondate le doglianze sollevate dalla difesa.
In merito al primo motivo di ricorso, la Corte ha evidenziato come, secondo l’indirizzo maggioritario di dottrina e giurisprudenza, la bancarotta fraudolenta sia un reato di pericolo concreto, poiché le condotte distrattive dell’imprenditore assumono rilevanza penale solo quando siano ex ante idonee a mettere a rischio la garanzia dei creditori della massa fallimentare, indipendentemente dall’effettiva causazione di un danno nei loro confronti.
In particolare, la condotta distrattiva dell’imprenditore assume rilevanza penale in presenza di due condizioni.
In primo luogo, l’agente deve aver realizzato la condotta entro uno spazio-temporale ragionevole, la cosiddetta zona penale di rischio, comunemente individuata come una situazione di “prossimità dello stato di insolvenza”.
Quando l’impresa o la società sono in bonis, l’imprenditore può destinare i beni sociali nel modo che ritiene più utile per conservare il valore del patrimonio sociale nel suo complesso, senza che sia esasperato il concetto – sostenuto in numerose occasioni dalla giurisprudenza di legittimità – secondo cui l’atto distrattivo possa rilevare indipendentemente dal momento in cui è stato commesso.
In secondo luogo, la condotta deve essere idonea a creare un reale pericolo per il soddisfacimento delle ragioni dei creditori, il quale deve permanere fino al tempo precedente all’apertura della procedura fallimentare come “una sottrazione, un permanente segno ‘meno’ nel patrimonio, inteso come garanzia per la massa dei creditori che risulteranno titolati per la procedura concorsuale”.
In altre parole, la tutela penale del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare ruota intorno ai creditori: il reato non si configura solo per la sottrazione di ricchezza in sé, ma solo per quella concretamente idonea a recare danno alle pretese dei creditori. Di conseguenza, il giudice, quando è chiamato ad accertare la sussistenza dell’elemento oggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, non può basarsi soltanto sulla mera constatazione dell’esistenza dell’atto distrattivo, ma deve valutare l’oggettiva qualità del distacco patrimoniale.
Proprio sulla base di tali considerazioni ermeneutiche, i giudici di legittimità, nel caso di specie, hanno ritenuto di accogliere il primo motivo di ricorso, ritenendo che la Corte d’Appello non avesse sviluppato adeguatamente la necessaria verifica sulla pericolosità in concreto della condotta distrattiva prefallimentare contestata al ricorrente. Infatti, ad avviso della Suprema Corte, il giudice di secondo grado, si era limitato a sostenere che “una distrazione di beni dal patrimonio sociale fosse avvenuta”, senza tuttavia procedere ad un effettivo accertamento della pericolosità ex ante delle condotte distrattive poste in essere dall’imputato.
Nessun dubbio circa la fondatezza del secondo motivo di ricorso. Era infatti evidente per il Collegio come il giudice di secondo grado non avesse fornito una congrua motivazione riguardo alla sussistenza del coefficiente soggettivo caratterizzante la bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione, consistente nel fine specifico di voler recare pregiudizio ai creditori.
In forza di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha accolto integralmente i motivi della difesa, annullando con rinvio la sentenza impugnata.
La sentenza in commento è di particolare interesse in quanto, oltre a mettere in luce la natura di reato di pericolo concreto della bancarotta fraudolenta patrimoniale, rappresenta un’ulteriore conferma dell’importanza dei cosiddetti “indici di fraudolenza”, ossia dei criteri che supportano la verifica dell’interprete chiamato ad accertare la sussistenza di tale reato.
Infatti, una volta ricostruito il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale come reato di pericolo concreto, occorre chiedersi quali siano le implicazioni di tale qualificazione giuridica sotto il profilo del coefficiente soggettivo.
Ebbene, secondo consolidata giurisprudenza, l’elemento psicologico della bancarotta fraudolenta patrimoniale (fuori dall’ipotesi di esposizione o riconoscimento di passività inesistenti) deve essere ravvisato nel dolo generico.
Questo, tuttavia, non può esaurirsi nella rappresentazione e nella volizione del fatto distrattivo, ma deve investire, per l’appunto, anche la pericolosità di tali fatti rispetto alla preservazione della garanzia patrimoniale dei creditori.
Ciò implica che il dolo di bancarotta debba consistere nella volontà consapevole di destinare il patrimonio sociale a scopi diversi da quelli dell’impresa e di compiere atti che possano danneggiare o danneggino effettivamente i creditori, anche quando l’agente pur non perseguendo direttamente tale risultato, lo preveda e agisca comunque consentendone la realizzazione.
Di conseguenza, – fuori dei casi “estremi” come quello qui in esame, caratterizzato dal valore pressoché nullo dei beni sottratti – la motivazione del giudice di merito deve necessariamente dar conto, oltre che della connotazione del fatto in termini di pericolo concreto, anche della riconoscibilità del dolo generico.
Ciò deve avvenire sulla base di una puntuale analisi della fattispecie concreta in tutte le sue peculiarità, in modo da individuare possibili “indici di fraudolenza”.
Questi ultimi, secondo l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, possono consistere, ad esempio: nella disamina della condotta alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell’azienda; nel contesto in cui l’impresa ha operato, tenendo conto di cointeressenze dell’amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte; nella irriducibile estraneità del fatto generatore dello squilibrio tra attività e passività rispetto a canoni di ragionevolezza imprenditoriale (come affermato da Sez. 5, n. 38396 del 23/6/2017, Sgaramella, Rv. 270763).
Questo approdo interpretativo è imprescindibile per la piena aderenza del “diritto vivente” in materia di reati fallimentari ai principi di offensività e di necessaria colpevolezza.