SICUREZZA SUL LAVORO (ART. 25septies)
– Profili normativi, trattamento sanzionatorio e linee guida per la redazione del Modello Organizzativo
Introduzione
L’art 25-septies è stato introdotto con Legge del 10 agosto 2007 n. 123 e successivamente novellato dall’art. 300 del Testo Unico sulla Sicurezza nei luoghi di lavoro, Decreto 81 del 2008 (c.d. TUS).
Si è così esteso il novero dei reati presupposto della responsabilità degli enti anche alle fattispecie di omicidio colposo e lesioni colpose commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
La norma prevede la responsabilità dell’ente nel caso in cui i reati omicidio colposo e di lesioni colpose, conseguenti alla violazione delle disposizioni preordinate alla tutela dei lavoratori, siano ascrivibili ai soggetti di cui all’art. 5 del D. 231/2001, e sia stato perseguito un interesse dell’ente o conseguito un suo vantaggio.
La struttura dei reati presupposto
Il primo comma della disposizione in commento individua la forma più grave di responsabilità dell’ente in relazione al delitto di omicidio colposo p. e p. dall’art. 589 C.P., in quei casi in cui la morte del lavoratore sia conseguita alla violazione della regola preventiva contenuta nell’art. 55, comma 2 del TUSL; ovvero, qualora in aziende in cui il rischio di infortuni risulta maggiormente elevato, la valutazione dei rischi:
- è stata del tutto omessa (art. 17, comma 1, lettera a) TUSL;
- manca degli elementi fondamentali di cui alle lettere a), b), d) ed f) dell’art. 28 TUSL (relative alla valutazione dei rischi e dell’indicazione di tutte le misure di prevenzione adottate e di quelle da adottare);
- viola le disposizioni di cui all’art. 18, comma 1, lettere q) e z), prima parte TUSL (relative alla necessaria adozione di provvedimenti a tutela dell’ambiente e della popolazione, nonché dell’aggiornamento delle misure di prevenzione).
Il secondo comma dell’art. 25 della norma in commento prevede, invece, la responsabilità dell’ente nel caso in cui l’omicidio colposo consegua alla violazione di una qualsiasi regola cautelare preposta alla tutela e alla sicurezza sul lavoro.
Infine, il terzo comma prevede l’ipotesi delle lesioni colpose, ex art. 590 comma 3 c.p., commesse con violazione delle norme sulla tutela e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Il richiamo al solo terzo comma dell’art. 590 C.P. consente di affermare che la responsabilità dell’ente si può configurare solo nel caso in cui le lesioni siano gravi o gravissime.
I reati di omicidio colposo e di lesioni colpose in esame si configurano, tendenzialmente, quando un soggetto titolare di una posizione di garanzia abbia violato una regola alla prevenzione degli infortuni sul lavoro e da tale violazione sia derivato l’evento morte o lesione del lavoratore o di un terzo.
Tali reati sono generalmente integrati da condotte omissive, consistenti nella mancata osservanza delle norme cautelari e nella mancata adozione di misure idonee a impedire il verificarsi di infortuni sul lavoro.
Entrambe le fattispecie di reato menzionate puniscono comportamenti colposi – e questo è un primo aspetto rilevante – posto che al momento dell’introduzione dell’art. 25-septies nel D. Lgs. 231/01, tutti reati presupposto erano di natura dolosa.
A tal proposito occorre evidenziare che il comportamento colposo può esplicarsi sia in una condotta commissiva, sia in una omissiva. L’art. 40, comma 2 c.p. sancisce, infatti, che “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”.
Perciò, la responsabilità penale per una condotta omissiva sussiste solo nei confronti di coloro sui quali grava un obbligo giuridico di impedire l’evento. Tale obbligo può derivare da una norma di legge che lo prevede espressamente, da precedenti attività pericolose, da un contratto o ancora da una situazione in forza della quale il soggetto sia tenuto a compiere una determinata attività a tutela dell’incolumità di alcuni soggetti.
La presenza di un obbligo giuridico di impedire l’evento fa sorgere in capo al soggetto su cui grava una c.d. posizione di garanzia, cui è correlata la concreta sussistenza di poteri impeditivi che, se effettivamente esercitati, possono evitare il verificarsi dell’evento lesivo.
L’art. 25-septies si limita ad un mero richiamo alle disposizioni contenute nel Codice penale.
Le due fattispecie inserite nel Codice penale, agli artt. 589, commi 1 e 2 e 590 comma 3, fanno riferimento alla violazione delle norme “per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”. Anzitutto con il concetto di infortunio sul lavoro s’intende “ogni lesione originata da una causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o una inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale ovvero una inabilità temporanea assoluta”.
Gli elementi integranti l’infortunio sul lavoro sono quindi: a) la lesione; b) la causa violenta e c) l’occasione di lavoro. Il concetto di <occasione di lavoro> richiede che vi sia un nesso causale tra il lavoro e il verificarsi del rischio cui può conseguire l’infortunio. Il rischio considerato è quello specifico, determinato dalla ragione stessa del lavoro (art. 2 D.P.R. 1124/65).
Le norme antinfortunistiche richiamate dagli artt. 589 e 590, comma 3 c.p. nonché dall’art. 25-septies D. Lgs. 231/01, la cui violazione può cagionare l’evento lesioni o morte, determinando l’eventuale responsabilità delle persone fisiche e dell’ente, sono contenute in diverse fonti. In primo luogo, nel Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro (il TUS appunto), nonché in leggi, regolamenti, ordini e discipline che si occupano della materia. A queste si affiancano inoltre i doveri generali del datore di lavoro previsti dall’art. 2087 c.c. di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” (Cass. Civ., Sez. Lav., 21.04.2017, n. 10145; Cass. Civ., Sez. Lav., n. 27964 del 2018).
Infine determinano la responsabilità per i reati di cui all’art. 589 e 590, comma 2 c.p. tutti i comportamenti negligenti, imprudenti e imperiti –anche non prescritti formalmente- che possano aver dato causa o concorso alla realizzazione delle lesioni i della morte.
La violazione delle norme antinfortunistiche che possono determinare la responsabilità per i reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p., ricorre non solo quando la vittima è una persona collegata all’impresa, quindi lavoratori subordinati o affini, ma anche nel caso in cui si tratti di un qualsiasi soggetto che è entrato in contatto con le fonti di pericolo che promanano dall’impresa e che il datore di lavoro è chiamato a gestire (Tribunale di Lucca, 31 luglio 2017 n. 222, confermata da Corte App. Firenze, III, 16 dicembre 2019 n. 3733, c.d. Disastro ferroviario di Viareggio –anche se la Cassazione in data 8.01.2021 ha poi escluso l’aggravante della violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni, dichiarando prescritto il reato).
Anche la Cassazione si è espressa in tal senso laddove ha statuito che “il datore di lavoro che, con una propria condotta, abbia determinato l’insorgere di una fonte di pericolo, è titolare di una posizione di garanzia inerente ai danni provocato non soltanto ai propri dipendenti, ma anche a terzi che frequentano le strutture aziendali” (Cass. Pen., IV, 10.06.2010 n. 38991, Riv. 248850. Fattispecie in tema di esposizioni ad amianto).
Ed infatti, è stato spiegato che la configurabilità della violazione di norme antinfortunistiche esula dalla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, atteso che il rispetto di tali norme è imposto anche quando l’attività lavorativa venga prestata anche solo per amicizia, riconoscenza o comunque in situazione diversa dalla prestazione del lavoratore subordinato, purché detta prestazione sia stata realizzata in un ambiente che possa definirsi di <lavoro> (Cass. Pen., IV, 16.01.2008, n. 7730, Riv. 238757, di recente anche Cass. Pen., IV, 28.03.2019, n. 13583, in relazione alla responsabilità del datore di lavoro per omicidio colposo dovuto all’utilizzo di un carrello elevatore da parte di un soggetto esterno all’azienda e non autorizzato).
E ciò in quanto “le disposizioni sono emanate nell’interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere quindi da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell’impresa” (Cass. Pen., IV, 17.3.2016, n. 11388).
Interesse e vantaggio
Una volta verificatosi l’evento lesioni o morte del lavoratore o di un terzo, a causa della violazione di norme prevenzionistiche, affinché possa ritenersi integrata la responsabilità dell’ente è necessario accertare che il soggetto che ha violato la normativa, che deve rientrare tra i soggetti di cui all’art 5 D. Lgs. 231/01, abbia agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente.
Infatti, come si è già anticipato, ai fini della configurabilità della responsabilità dell’ente, anche per le fattispecie colpose previste dall’art. 25-septies opera il medesimo schema imposto, per i reati dolosi, dall’art. 5 del D. Lgs. 231/01 secondo il quale l’ente risponde solo dei reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio.
Tuttavia, già al momento dell’introduzione nel D. Lgs. 231/01 della disposizione in commento, sono sorti seri dubbi in ordine alla possibilità di riscontrare i criteri di imputazione oggettiva dell’interesse e del vantaggio, anche rispetto a fattispecie colpose, nelle quali l’evento non è voluto dall’agente ma si realizza per negligenza, imprudenza o imperizia o per la violazione di regole cautelari.
Tale struttura del reato appare infatti incompatibile con la necessità –prevista all’art. 5 del D. Lgs. 231/01– che la persona fisica abbia agito perseguendo un interesse dell’ente ovvero a vantaggio dello stesso.
“Sembra infatti una contraddizione in termini affermare che il movente di un comportamento privo di una qualsiasi intenzionalità criminosa (e che viene sanzionato solo perché il singolo ha inconsapevolmente violato una norma a carattere cautelare) sia da rinvenire nell’intenzione di favorire –proprio mediante l’inosservanza della disciplina prudenziale che il soggetto agente non sa di aver contravvenuto- la persona giuridica nel cui ambito imprenditoriale il responsabile del reato opera” (Bricchetti-Pistorelli, Responsabili anche gli enti coinvolti, in Guida Diritto, 2007, 35, p.41).
Peraltro, alcuni autori avevano evidenziato come l’evento di tali reati (morte o lesioni) fosse di per sé incompatibile con i concetti di vantaggio o di interesse dell’ente, e ciò in relazione ai costi che l’ente avrebbe dovuto sostenere a seguito della verificazione dell’evento, sia in termini di risarcimento del danno e di ripristino delle cautele, sia quale danno d’immagine (PIERGALLINI in Reati e responsabilità degli enti, a cura di Lattanzi).
Tali considerazioni, avevano perciò portato una parte della dottrina a ritenere inapplicabile la nuova disciplina, e ad auspicare un rapido intervento legislativo che modificasse i criteri di imputazione oggettiva della responsabilità dell’ente rispetto a tali reati presupposto.
Un’altra parte della dottrina aveva invece elaborato una tesi di compatibilità, sostenendo che nei reati colposi i criteri di imputazione non devono essere riferiti al reato nel suo complesso (quindi comprensivo dell’evento morte o lesioni), quanto esclusivamente alla condotta (IELO, Lesioni gravi, omicidi colposi aggravati dalla violazione della normativa antinfortunistica e responsabilità degli enti, in Resp. Amm. Soc. ent., 2008, 60 e PULITANO’, La responsabilità “da reato” degli enti; i criteri d’imputazione, in Riv. It. Dir. Proc. pen., 2002, p. 417).
La Giurisprudenza, già nelle prime pronunce sul tema si era espressa per la compatibilità tra le fattispecie colpose ex art. 589 e 590 c.p. ed i criteri d’imputazione di cui all’art. 5 D. Lgs. 231/01.
È stata poi la Giurisprudenza di legittimità, con la sentenza pronunciata nel noto caso Thyssenkrupp, a dettare i principi cardine della materia.
In tale pronuncia viene infatti affermato che i criteri d’imputazione oggettiva della responsabilità dell’ente (l’interesse o il vantaggio di cui all’art. 5 D. Lgs. 231/01), sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il primo esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; il secondo ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito.
Peraltro, proprio nel caso di responsabilità degli enti ritenuta in relazione a reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, è stato chiarito che la colpa di organizzazione deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza, da parte dell’ente dell’obbligo, di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua rischi e delinea le misure atte a contrastarli (Cass. Pen., SS.UU., 24.04.2014 n. 38343, Espenhahn e altri c.d. Thynssenkrupp, Rv. 261113).
Soprattutto però tale pronuncia ha consacrato la tesi secondo cui i criteri di imputazione dell’interesse e del vantaggio devono essere collegati non al reato in sé e per sé quanto invece alla condotta. Nello specifico è stato detto che “ai fini della configurabilità della responsabilità degli enti per reati colposi di evento i criteri di imputazione di cui all’art. 5 D. Lgs. 231/2001 –interesse o vantaggio per l’ente- devono essere riferiti alla condotta e non all’evento” (Cass. Pen., SS.UU. n. 38343/2014, cit.).
Concetti ribaditi anche dalla recente giurisprudenza, secondo cui “Ricorre il requisito dell’interesse quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica; ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito (non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma) di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa: pur non volendo il verificarsi dell’infortunio a danno del lavoratore, l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente (ad esempio far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione)” – (Cass. Pen., IV, 17.04.2019, n. 16598).
Il significato dei criteri di interesse e vantaggio nella giurisprudenza
La casistica ha, poi, offerto alla giurisprudenza di legittimità l’occasione per specificare, di volta in volta, il significato dei criteri d’imputazione oggettiva; si è così affermato per esempio, che l’interesse “può essere ravvisato nel risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dei procedimenti e dei presidi di sicurezza; nell’incremento economico conseguente all’incremento della produttività non ostacolata dal rispetto della normativa prevenzionale” (Cass. Pen., IV, 19.05.2016, n. 31210 e Cass. Pen., IV, 28.10.2019, n. 43656); nel risparmio sui costi di consulenza, sugli interventi strumentali, sulle attività di formazione e informazione del personale (Cass. Pen., IV, 19.02.2015, n. 18073); o, ancora, nella velocizzazione degli interventi di manutenzione e di risparmio sul materiale (Cass. Pen., IV, 26.10.2020, n. 29584 con nota di Roccatagliata in Giurisprudenza Penale, 20.10.2020).
Esso, quindi, va inteso non solo come risparmio di spesa conseguente alla mancata predisposizione del presidio di sicurezza, ma anche come incrementi economico dovuto all’aumento della produttività non rallentata dal rispetto delle norme cautelare (Cass. Pen., IV, 23.06.2015, n. 31003 e Cass. Pen., IV, 10.10.2017, n. 53285).
E ancora, l’interesse è stato ravvisato nel risparmio di spesa derivante dalla mancata predisposizione di un presidio atto al suo scopo e dalla omessa manutenzione o sostituzione di esso.
Il vantaggio è stato, invece, individuato nella velocizzazione degli interventi manutentivi che sia tale da incidere sui tempi di lavorazione.
Altro tema degno di essere segnalato è quello del c.d. vantaggio fortuito. Si registrano infatti alcune pronunce in cui è stata esclusa la responsabilità dell’ente essendosi il vantaggio realizzato solo per caso fortuito, non attribuito alla volontà della persona giuridica.
Per diverso tempo la giurisprudenza ha sostenuto che la responsabilità dell’ente, per lesioni colpose o omicidio colposo sussistesse soltanto nel caso in cui si fosse registrata una sistematica violazione della normativa antinfortunistica, sintomatica di una specifica politica di impresa.
Tuttavia, di recente la Corte di Cassazione ha operato un’inversione di rotta, sostenendo che “in tema di responsabilità amministrativa degli enti derivante dal reato di lesioni personali aggravate dalla violazione della disciplina antinfortunistica, l’interesse quale criterio di imputazione oggettiva della responsabilità, può sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata dovuta ad un’iniziativa estemporanea, allorché altre evidenze fattuali dimostrino il collegamento finalistico tra la violazione e l’interesse dell’ente” (Cass. Pen., IV, n. 29584 del 22.09.2020).
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Trattamento sanzionatorio
Il primo comma dell’art. 25-septies richiama l’art. 589 c.p. commesso con violazione dell’art. 55, co. 2, TUSL e prevede l’applicazione di una sanzione pecuniaria in misura pari a 1.000 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9 comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno.
Il secondo comma, in relazione al delitto di cui all’art. 589 c.p., commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, prevede l’applicazione di una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a 250 quote e non superiore a 500 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno.
Infine il terzo comma, in relazione al delitto di cui all’articolo 590 terzo comma c.p., commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, prevede una sanzione pecuniaria in misura non superiore a 250 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non superiore a sei mesi.
3. Linee guida per la redazione del Modello Organizzativo
L’art. 30 del TUSL specifica una serie di elementi in presenza dei quali il modello di organizzazione, gestione e controllo può ritenersi idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa.
Più nello specifico la norma prevede che il Modello debba essere adottato ed efficacemente attuato ma anche che lo stesso assicuri un sistema aziendale che garantisca l’adempimento di una serie di obblighi giuridici relativi:
- al rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi ad attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici;
- alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti;
- alle attività di natura organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, riunioni periodiche di sicurezza, consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;
- alle attività di sorveglianza sanitaria;
- alle attività di informazione e formazione dei lavoratori;
- alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori;
- alla acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge;
- alle periodiche verifiche.
Secondo l’orientamento maggioritario della Giurisprudenza i Modelli redatti ai sensi dell’art. 30 del TUS “non possono in alcun modo costituire un surrogato di un modello organizzativo e gestionale che è stato congegnato per scopi diversi, anche se sempre a favore dei lavoratori, e che questo risulta normativamente con precipue ramificazioni attuative, ben marcate e polivalenti”.
Le posizioni di garanzia cui si è fatto riferimento sopra possono essere attribuite ad un altro soggetto attraverso una delega che possegga i requisiti previsti dall’art. 16 del TUS.
Il conferimento di deleghe ha una particolare importanza anche rispetto al Modello 231. Si segnala, infatti, che laddove l’art. 6 comma 2 del D. Lgs. n. 231 del 2001, statuisce che i modelli debbano essere definiti “in relazione all’estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati”, di fatto richiede venga svolta una valutazione del sistema di distribuzione dei poteri e dei doveri in capo all’ente.
Con riguardo alle sempre più frequenti ipotesi affidamento esterno, appalto e subappalto, la giurisprudenza ha stabilito che ai fini della configurazione della responsabilità del committente occorre verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte della capacità organizzativa della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente nella scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, alla sua ingerenza nell’esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d’opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte dei committenti di situazioni di pericolo (Cass. Pen. IV, 30.01.2012, n. 3563.)