Con ordinanza del 4 settembre 2024, il Tribunale di Potenza-Sezione Gip ha revocato la misura interdittiva della sospensione dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività di gestione dei rifiuti, nonché del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione applicata nei confronti di una società che ne aveva chiesto la sospensione ai sensi dell’art. 49, co. 1 del D.Lgs. n . 231 del 2001.
A norma dell’art. 49, infatti, le misure cautelari possono essere sospese se l’ente chiede di poter realizzare gli adempimenti cui la legge condiziona l’esclusione di sanzioni interdittive a norma dell’articolo 17. In tal caso, il giudice, sentito il pubblico ministero, se ritiene di accogliere la richiesta, determina una somma di denaro a titolo di cauzione, dispone la sospensione della misura e indica il termine per la realizzazione delle condotte riparatorie di cui al medesimo articolo 17.
La cauzione consiste nel deposito presso la Cassa delle ammende di una somma di denaro che non può, comunque, essere inferiore alla metà della sanzione pecuniaria minima prevista per l’illecito per cui si procede. In luogo del deposito, è ammessa la prestazione di una garanzia mediante ipoteca o fideiussione solidale.
Nel caso di mancata, incompleta o inefficace esecuzione delle attività nel termine fissato, la misura cautelare viene ripristinata e la somma depositata o per la quale è stata data garanzia, è devoluta alla Cassa delle ammende.
Se si realizzano le condizioni di cui all’art. 17, il giudice revoca la misura cautelare e ordina la restituzione della somma depositata o la cancellazione dell’ipoteca; la fideiussione prestata si estingue.
Nel caso giudiziario preso in esame la misura era stata sospesa ai sensi dell’art. 49 co. 1 del Decreto, con ordinanza emessa dal Gip e contenente le prescrizioni di adozione di un modello organizzativo idoneo, del risarcimento del danno in favore Comune di Montescaglioso e del versamento dell’indicata cauzione o garanzia, per il cui adempimento era concesso un termine di novanta giorni. Accertato dall’A.G. l’adempimento degli obblighi imposti veniva revocata la misura interdittiva.
Sarebbe interessante continuare a seguire la vicenda processuale che ha fornito lo spunto per il nostro approfondimento, anche per comprendere se l’adozione del MOG, sebbene post factum, nonché l’adempimento degli altri obblighi imposti dal Giudicante, durante la “sospensione della misura interdittiva”, avrà un impatto positivo sotto il profilo della esclusione della responsabilità dell’ente.
Il meccanismo poc’anzi descritto evoca, senza dubbio, l’analogia operativa con l’istituto della messa alla prova, introdotto nel nostro ordinamento dalla legge n. 67/2014 e disciplinato dall’art. 168 bis e ss. c.p.
La norma prevede che, in relazione alla commissione di determinati reati e nei casi previsti dalla legge, l’imputato possa chiedere la sospensione del processo con il suo affidamento all’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (UEPE), affinché svolga determinate attività secondo un programma di trattamento prestabilito.
Obiettivo è la riparazione delle conseguenze dannose del reato e, se possibile, il risarcimento del danno cagionato.
Qualora la messa alla prova abbia esito positivo, il reato si considererà estinto, in caso contrario si avrà la revoca del beneficio con conseguente prosecuzione del processo.
Trattandosi di un istituto funzionale sia alla rieducazione del reo che alla riparazione dei danni cagionati alla comunità, ma originariamente pensato per le persone fisiche, ci si è legittimamente interrogati circa la sua applicabilità agli enti nell’ambito della responsabilità ex D.Lgs. 231/2001.
In quell’occasione, la Suprema Corte, chiamata ad affrontare la questione relativa alla legittimazione del procuratore generale ad impugnare, con ricorso per cassazione, l’ordinanza che ammette l’imputato alla messa alla prova ai sensi dell’art. 464-bis c.p., ha affermato in modo categorico che l’istituto dell’ammissione alla prova (art. 168-bis c.p.) non trova applicazione con riferimento agli enti di cui al D.Lgs. n. 231/2001, poiché non contiene riferimenti agli enti quali possibili destinatari della messa alla prova e neppure le norme del D.Lgs n. 231/2001, sebbene introdotte prima di quelle disciplinanti l’istituto per gli imputati maggiorenni, contengono richiami che facciano pensare ad una applicabilità della messa alla prova.
Fino a quel momento, l’applicazione estensiva della messa alla prova agli enti aveva condotto a decisioni contrastanti nella giurisprudenza di merito.
C’erano conclusioni ostative fondate perlopiù sull’assenza di una normativa di raccordo che renda applicabile la disciplina di cui all’art. 168-bis c.p. alla categoria degli enti. Inoltre, trattandosi di misura penale con carattere afflittivo, in virtù del principio della riserva di legge, non sarebbe applicabile ai casi non espressamente previsti e, quindi, alle società.
Altra argomentazione ha, invece, toccato il tema della “incompatibilità strutturale tra la disciplina della messa alla prova e quella della responsabilità amministrativa degli enti, connotate da rationes diverse, inconciliabili negli aspetti sostanziali ed anche processuali” (Trib. Bologna, 10/12/2020).
Le Corti che hanno optato per l’ammissione alla prova dell’ente, hanno adottato, invece, un’interpretazione estensiva o analogica dell’art. 168-bis c.p., ad esempio evidenziando che “l’ammissibilità dell’ente è subordinata all’essersi dotata, prima del fatto di un modello di organizzazione valutato inidoneo dal giudice, poiché solo in questo caso sarebbe possibile formulare un giudizio positivo in ordine alla futura rieducazione dell’ente, che dimostrerebbe così di essere stato diligente e di aver adottato un modello ritagliato sulle proprie esigenze specifiche per quanto valutato non idoneo dal giudice” (Trib. Modena, 19/10/2020).
Ancora, il Tribunale di Bari, nel giugno 2022, aveva ammesso all’istituto un ente che aveva poi adempiuto correttamente alle prescrizioni oggetto del programma di trattamento. Di conseguenza, il giudice di merito ha pronunciato sentenza di non doversi procedere in quanto l’illecito si sarebbe estinto a seguito dell’esito positivo della messa alla prova.
Nelle more del procedimento in esame, però, era intervenuta la citata sentenza delle Sezioni Unite, ma ciononostante, il Tribunale di Bari ha affermato che “in tema di giudizio di legittimità, il vincolo derivante dal principio di diritto affermato, ai sensi dell’art. 618, comma 1-bis, c.p.p., dalle Sezioni Unite della Corte riguarda esclusivamente l’oggetto del contrasto interpretativo rimesso e non si estende ai temi accessori o esterni”.
Nel caso di specie, come visto, l’ordinanza che aveva rimesso la questione alle Sezioni Unite riguardava la legittimazione del procuratore generale a proporre impugnazione avverso l’ordinanza che ammette l’imputato alla messa alla prova, di conseguenza, secondo il Tribunale, la questione relativa all’ammissibilità dell’ente all’istituto non manifestava criteri di pregiudizialità rispetto a quello oggetto del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite.
Quanto invece all’applicabilità della messa alla prova dell’ente, il Tribunale di Bari ha affermato in primo luogo che l’applicazione analogica in bonam partem della legge penale non contrasterebbe con il principio di tassatività in quanto conforme alla ratio di quest’ultimo.
Inoltre, il Tribunale aggiunge che “anche aderendo alla tesi della natura di sanzione penale della messa alla prova non può non rimarcarsi che il medesimo orientamento ha evidenziato che l’istituto in esame manifesta, allo stesso tempo, anche la natura di causa di estinzione del reato, per la quale, attesa la sua incontestabile portata generale, l’ammissibilità dell’analogia in bonam partem non è revocabile in dubbio”.
Sulla stessa linea si colloca anche una recente ordinanza del Tribunale di Perugia, emessa il 7 febbraio 2024.
Anche in questo caso, il giudice ha giudicato non vincolante il principio di diritto pronunciato dalle Sezioni Unite in quanto non attinente alla questione specifica dell’ammissibilità della messa alla prova per l’ente.
E’ evidente, dunque, che il dibattito non può dirsi del tutto chiuso, nemmeno con una sentenza delle Sezioni Unite.
La redazione di contributi in questa materia e l’approfondimento giurisprudenziale che ne deriva sono, ogni volta, occasione di riflessione professionale e personale.
La prevenzione, si sa, contribuisce ad evitare sempre o quasi conseguenze più gravi. Trattasi di una antichissima regola di buon senso che, a fatica, viene applicata nella materia dell’adeguamento da parte delle società alla normativa prevista dal Decreto 231.
Le cause sono molteplici, se la convinzione che comporti una voce di costo troppo alta è senz’altro quella principale, non da meno lo è la scarsa e disomogenea conoscenza che caratterizza la materia, nonostante faccia parte del nostro bagaglio normativo da ormai oltre 20 anni.
L’auspicio è, dunque, che attraverso una più omogenea applicazione del Decreto da parte di tutte le Procure del territorio nazionale possa giungersi ad un’effettiva attuazione della normativa e, soprattutto, della finalità preventiva ad essa sottesa.