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Definizione di crediti tributari “inesistenti e non spettanti”

In tema di compensazione di crediti tributari, sussiste una netta differenza fra crediti tributari inesistenti e non spettanti: con la recente sentenza dep. 11/12/2023 n. 34419, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno fatto chiarezza in punto di corretta qualificazione – tanto ai fini tributari quanto ai fini penalistici – dei crediti tributari dedotti in compensazione dal contribuente, definendone anche i precisi criteri discretivi.

Prima di procedere alla disamina della pronuncia, è opportuno chiarire il contesto normativo e giurisprudenziale antecedente all’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite.

Da un punto di vista prettamente tributario, la questione della corretta qualificazione di un credito tributario – ossia, se inesistente o non spettante – ha assunto primaria importanza nell’ottica della precisa definizione dei termini di decadenza del potere di contestazione al contribuente, da parte dell’Agenzia delle Entrate, di indebite compensazioni di crediti d’imposta.

In breve, la disciplina tributaria prevede una differenziazione dei termini di decadenza dalla potestà accertativa dell’Agenzia delle Entrate a seconda che il credito tributario contestato sia qualificato come inesistente o non spettante: nel primo caso – ai sensi del dell’art. 27, comma 16 del D. Lgs. n. 185/2008 convertito con L. n. 2/2009 – è previsto un termine di decadenza dalla contestazione fiscale pari a 8 anni; nel secondo caso, invece, trova applicazione il termine decadenziale ordinario, pari alla metà, ossia di 4 anni.

Con la riforma tributaria attuata mediante il D. Lgs. n. 158/2015, l’art. 15 del predetto decreto ha modificato l’art. 13, comma 5, terzo periodo del D. Lgs. n. 471/1997, contestualmente offrendo una definizione positiva dei requisiti di inesistenza di un credito tributario dedotto in compensazione: si intendono tali, infatti, quei crediti in relazione ai quali: “manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633” (ossia, controlli formali e automatizzati sulla base degli elementi dichiarati dal contribuente stesso o in possesso dell’anagrafe tributaria).

Passando ora al versante giurisprudenziale, la pronuncia in commento emessa dalle Sezioni Unite nasce dall’esigenza di ricondurre ad unità un contrasto giurisprudenziale formatosi in seno alle Sezioni semplici della Corte di Cassazione.

Da una parte, infatti, l’orientamento giurisprudenziale più risalente (e, nella prassi, maggioritario) avallava un’interpretazione riduttiva delle categorie di inesistenza e non spettanza dei crediti d’imposta: si sosteneva, infatti, che fra le nozioni di credito inesistente e credito non spettante non sussisterebbe alcuna differenza, sull’assunto che l’art. 27, comma 16 del D. Lgs. n. 185/2008 convertito con Legge n. 2/2009 – nella previsione di un termine di decadenza del potere accertativo maggiore (8 anni) in relazione ai c.d. crediti inesistenti – non intendesse costituire una categoria normativa distinta a quella della “non spettanza”, volendo unicamente garantire un margine maggiore per l’esercizio del potere di accertamento in relazione a quelle verifiche fiscali di maggior complessità (in tal senso, ex pluribus, Cass. Civ., 21/04/2017 n. 10112).

Dall’altra, invece, si poneva un orientamento giurisprudenziale (in tal senso, c.d. sentenze gemelle: Cass. Civ. Sez. V, 16/11/2021 n. 34443, 34444, 34445) più recente che – in aperto contrasto con il precedente – avallava una differenziazione normativa delle categorie della inesistenza e della non spettanza dei crediti d’imposta, fondando le proprie argomentazioni proprio sulla riforma dell’art. 13, comma 5 (III periodo) del D. Lgs. n. 471/1997 ad opera del D. Lgs. n. 158/2015: a converso si argomentava che, poiché il Legislatore ha inteso offrire una definizione positiva della categoria della “inesistenza” dei crediti d’imposta, in ciò era implicita una differenziazione concettuale fra le categorie della inesistenza e della non spettanza; tale impostazione risultava maggiormente avvalorata dalla ulteriore differenziazione del trattamento sanzionatorio comminato in relazione ai crediti inesistenti (sanzione dal 100% al 200% del credito d’imposta) e ai crediti non spettanti (fino al 30% del credito d’imposta).

Chiamate ad esercitare la propria funzione nomofilattica, le Sezioni Unite hanno avallato il secondo dei due orientamenti giurisprudenziali sopra proposti, confermando la sussistenza di una differenziazione fra le categorie normative dei crediti d’imposta inesistenti e non spettanti, riconoscendo – ai fini civilistici e tributari – agli stessi un differente regime normativo tanto in relazione al termine di decadenza dall’esercizio della potestà accertativa in capo all’Agenzia delle Entrate, quanto in punto di sanzioni tributarie.

Contestualmente, per le ragioni di interesse, le Sezioni Unite hanno affermato il seguente principio di diritto: “In tema di compensazione di crediti o eccedenze d’imposta da parte del contribuente, all’azione di accertamento dell’erario si applica il più lungo termine di otto anni, di cui all’art. 27, comma 16, D.L. n. 185 del 2008, quando il credito utilizzato è inesistente, condizione che si realizza – alla luce anche dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, D.Lgs. n. 471 del 1997, come modificato dal D.Lgs. n. 158 del 2015 – allorché ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti:

  1. il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già estinto al momento del suo utilizzo;
  2. l’inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter D.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 54-bis D.P.R. n. 633 del 1972.

Ove sussista il primo requisito ma l’inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano i termini ordinari per l’attività di accertamento 23. Alla luce dei principi esposti, dunque, il secondo motivo va rigettato” (cfr. pag. 15 della Sentenza).

Con obiter dictum, le Sezioni Unite hanno altresì confermato che i requisiti di inesistenza del credito – previsti dal novellato art. 13, comma 5 D. Lgs. n. 471/1997 – devono sussistere congiuntamente, con ciò escludendo in radice, come invece sostenuto da alcuni orientamenti, che il requisito della non accertabilità dell’insussistenza dei presupposti costitutivi del credito mediante i controlli formali e automatizzati fosse meramente aggiuntiva (e non coessenziale) al requisito dell’inesistenza stessa dei presupposti costitutivi del credito d’imposta stesso.

A tal riguardo, il requisito della non accertabilità dell’insussistenza dei presupposti costitutivi del credito mediante controlli formali e automatizzati deve essere inteso in una connotazione oggettiva: a tal proposito, le Sezioni Unite hanno precisato che «non assume rilievo che, materialmente, l’inesistenza del credito sia stata rilevata a seguito di accertamento sostanziale ma solo che, in sede di controllo formale, non era possibile riscontrarne la mancanza, ancorché, in concreto, tale verifica non sia stata operata».

Assodato pertanto che sussiste una differenziazione fra le categorie dei crediti d’imposta inesistenti e non spettanti e puntualizzati i requisiti normativi per la relativa individuazione, le Sezioni Unite hanno altresì confermato che la medesima qualificazione giuridica è valida anche ai fini penalistici – con riferimento al reato di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater D. Lgs. n. 74/2000 – non essendo ivi prospettabile una definizione alternativa rispetto a quella vigente ai fini tributari.

A ben vedere, l’orientamento oggi accolto dalle Sezioni Unite era da tempo avallato anche dalla Cassazione penale maggioritaria in tema di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater D. Lgs. n. 74/2000 (in tal senso, ex pluribus, Cass. Pen., Sez. III, 25/09/2018 n. 41229): a parere di chi scrive, l’accoglimento della tesi della differenziazione concettuale delle categorie della inesistenza e non spettanza dei crediti d’imposta si rendeva necessaria anche alla luce della disciplina penal-tributaria per le seguenti ragioni.

In primo luogo, l’evoluzione testuale della fattispecie del delitto di indebita compensazione dimostra, incontrovertibilmente, che il Legislatore abbia voluto conferire autonomia concettuale alle distinte categorie normative della non spettanza e della inesistenza dei crediti d’imposta: nella formulazione vigente fino al 2015, l’art. 10-quater prevedeva una distinzione fra crediti “inesistenti e non spettanti” senza farne discendere alcuna conseguenza in termini sanzionatori o procedurali; diversamente, con la medesima riforma attuata con il D. Lgs. n. 158/2015, il Legislatore ha introdotto un regime differenziato quoad poenam a seconda che la compensazione indebita abbia ad oggetto crediti non spettanti (comma 1) o crediti inesistenti (comma 2), logicamente prevedendo per questi ultimi un trattamento sanzionatorio più gravoso.

In secondo luogo, l’art. 13, comma 1 D. Lgs. 74/2000 limita l’applicabilità della causa di non punibilità – dipendente dall’integrale pagamento dei debiti tributari, comprensivi di sanzioni e interessi, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento – alla sola fattispecie di cui al primo comma dell’art. 10-quater (ossia indebita compensazione di crediti d’imposta non spettanti) e non, invece, anche alla fattispecie di cui al secondo comma del medesimo articolo, avente ad oggetto crediti d’imposta inesistenti.

Conseguentemente, anche alla luce della differente disciplina penal-tributaria, correttamente si innesta il principio di diritto disposto dalle Sezioni Unite: diversamente opinando – ossia qualora si fosse ritenuto che non sussista alcuna differenziazione fra le categorie normative di inesistenza e non spettanza dei crediti d’imposta – sarebbe venuto meno un presupposto giuridico fondamentale per giustificare il distinto trattamento sanzionatorio di rilievo penalistico, con ciò palesandosi – eventualmente – un contrasto con il principio costituzionale di proporzionalità e ragionevolezza delle pene.

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