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Enti di piccole dimensioni attraverso la lente 231

La responsabilità da reato degli enti è entrata in gioco per punire l’agire collettivo e non già le persone fisiche, compito da sempre riservato al diritto penale classico, progettando una disciplina la cui base vede il principio del cumulo per quell’origine mista del crimine di impresa.

La reale domanda che in tale sede si vuole porre è se un ente di piccole dimensioni, caratterizzante il sostrato economico italiano, ad esempio con assetto verticistico e limitata delega di funzioni, laddove l’imprenditore è il perno intorno al quale tutta la realtà “societaria” ruota, possa davvero essere considerato dotato di vita propria: vi è davvero quella organizzazione che lo rende soggetto altro rispetto alle persone fisiche ivi inglobate?

Il principio del cumulo dà vita ad una corretta risposta sanzionatoria? Si ricordi che la disciplina dei compliance programs rappresenta una soluzione presa in prestito da una realtà molto diversa da quella italiana. L’armamentario cautelativo previsto dal Decreto, invero, può trovare terreno fertile solo in quelle imprese strutturate lontane dagli enti di piccole e medie dimensioni che rappresentano, invece, il sostrato economico italiano.

L’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 231/2001 enuncia esemplificativamente quali principali destinatari della disciplina “gli enti forniti di personalità giuridica”, portando in primo piano la nozione di ente: concetto tanto elastico quanto del tutto evanescente. Per tale ragione non si può non sottolineare come la dottrina e la giurisprudenza si dividano tra una concezione in senso stretto ed una in senso lato del medesimo termine.

Senza scendere ad esaminare questioni di carattere ontologico, si ritiene che sia sì necessaria una soggettività giuridica distinta e autonoma dalle persone fisiche, come la stessa Relazione al Decreto dice, ma sia altresì assolutamente necessaria una articolazione interna che permetta una plurisoggettività di interessi in campo.

Ecco svelato il motivo per il quale si aprono scenari incostituzionali laddove si passi ad osservare con le “lenti 231” imprese familiari ed enti di piccole dimensioni, la maggior parte dei quali caratterizzati da una sovrapposizione tra management and ownership.

Sebbene gli enti di piccole dimensioni si differenzino dall’individuo o dalle imprese individuali perché dotati di una soggettività giuridica distinta, tale risposta non deve ritenersi esaustiva: essa, ad uno sguardo più attento, può essere esauriente solo da un punto di vista formale. Bisogna chiedersi se realmente essi siano in realtà centro autonomo di imputazione di interessi ed obblighi e se, in specie da un punto di vista sostanziale, essi presentino realmente quella conformazione distinta dalle persone fisiche di riferimento.

L’organizzazione, al di là di qualsivoglia criterio formale, diviene elemento essenziale di tutta la disciplina, il pendolo che oscilla tra l’essere (ente) e il non essere (ente). In tale caso, più che in presenza di un soggetto meta individuale si è in presenza di una società con mera funzione di schermo societario. Ecco che, con tali lenti, la formula “ente fornito di personalità giuridica” non può che essere letta come ogni “forma di forma di manifestazione organizzativamente complessa dell’attività di impresa, a prescindere dall’assunzione o meno di una determinata forma giuridica”.

Quanto anticipato ci permette di dire che, ad oggi, gli enti di piccole dimensioni hanno un posto nella schiera dei destinatari del Decreto per un diritto di nascita, sebbene tale disciplina, come ribadito, sia stata concepita esclusivamente per enti-organizzazioni complesse: ciò, inevitabilmente, dà vita a scenari incostituzionali che si proverà a presentare.

Fuor di dubbio si pone il problema di una indiscriminata sottoposizione degli enti “formali” al Decreto, il quale, affidata la giurisdizione al giudice penale, non porta con sé principi e istituti penalistici sanciti a livello nazionale e sovranazionale.

In primis, viene in rilievo il principio di colpevolezza, fondamento del nostro sistema costituzionale. Ad oggi, lasciando al passato qualsivoglia ascrizione per riflesso, la soluzione a lungo ricercata e trovata guarda alla colpa della societas come colpa di organizzazione. L’ente risponde per quel «rimprovero derivante dall’inottemperanza […] dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo».

La responsabilità dell’ente inizia e termina nel difetto di organizzazione, all’interno del quale il reato si pone solo come presupposto: l’ente risponderà di tutto quanto derivi dalla sua lacuna di organizzazione per un versari in re illicita. Se, dunque, inizio e fine della disciplina delineata è la c.d. colpa di organizzazione, bisogna chiedersi se possa esservi colpa, e ancor prima imputabilità, qualora tale organizzazione – complessa – manchi. Se non si ha quella spersonalizzazione di cui sempre si è parlato in termini di responsabilità delle societates, viene da chiedersi perché punire per una colpa di organizzazione qualora l’illecito – e il reato – siano riferibili alla medesima persona fisica.

L’ente deve essere punito perché colpevole di non aver adottato quel compendio di cautele richieste; giocoforza non si può punire un ente di piccole dimensioni perché privo di quella organizzazione complessa che avrebbe permesso di implementarle. Come dire: si finisce per punire un ente che non avrebbe però potuto comportarsi diversamente. La disciplina appare patologica, e di fatti non poche sono state le proposte in tal senso che, inspiegabilmente, non hanno trovato mai attuazione.

Si è dunque trasposta una disciplina che, pur rimettendo una autoregolamentazione all’ente stesso, non deve rimetterla indiscriminatamente a chi, è sì ente (formale), ma ben diverso da una organizzazione complessa che trascende dall’imprenditore stesso. Ecco il primo rilievo che in tale sede si vuole presentare: se è vero che la responsabilità dell’ente è per fatto proprio colpevole, e la sanzione non può che avere finalità preventive-rieducative, l’art. 27 comma 3 della Costituzione risulterà rispettato soltanto qualora la disciplina terrà conto delle differenze dei destinatari a cui sarà rivolta.

Punire l’impresa, incolpevolmente, lede il principio costituzionale: qualora l’ente sia una organizzazione esile, dipendente dall’intervento del socio di riferimento, titolare o beneficiario economico, si creerebbe una unisoggettività tale da rendere una disciplina assolutamente patologica.

I dettami della disciplina sono chiari: alla società è permesso distanziarsi dagli illeciti commessi dimostrando di aver fatto il possibile per impedire il fatto. Volendo semplificare al massimo, la società è costretta a difendersi dimostrando la propria distanza dall’agire degli autori dell’illecito: un meccanismo che non può di certo funzionare in un ente alter ego dell’imprenditore.

Come scrive Arlen, «l’azionista di controllo-manager non favorirà iniziative per far condannare sé stesso». Una sovrapposizione per di più normativamente prevista laddove si chiede all’imprenditore-impresa di edificare dei modelli per frenare sé stesso e, allo stesso tempo, laddove chiede a questi – in caso di illecito – di dimostrare che il proprio alter ego impresa abbia eluso l’altro sé. Ecco che la disciplina inizia a mostrare i suoi primi profili di incostituzionalità.

L’art. 5 del Decreto trova un incorreggibile contrarietà con riferimento agli enti di piccole dimensioni ponendo a carico dell’ente una probatio diabolica che mai potrà assolvere; una possibilità di discolpa di cui l’ente di piccole dimensioni viene privato fin dalle origini. Come è possibile attuare una corretta risposta punitiva?

Molti, dunque, sono i profili di incostituzionalità e i paradossi pratici che vengono in essere: se si richiede, ai fini della responsabilità, uno specifico interesse o vantaggio dell’ente, distinto rispetto a quello della persona fisica – ma i due soggetti rappresentano un unico centro d’interessi – è lampante il “corto circuito” in cui incappa la disciplina l’idea, cioè, che l’ente possa perseguire obiettivi di prevenzione degli illeciti attraverso una propria organizzazione capace di incidere sui comportamenti dei vertici e dissociarsi dalle loro azioni non conformi alle regole di compliance è, in questi contenti, null’altro che una finzione.

L’unisoggettività, come ribadito, impedisce di concepire quella rottura del nesso oggettivo di imputazione, laddove l’autore abbia agito nel proprio interesse/vantaggio o nell’interesse proprio di terzi, stante l’impossibile prefigurazione di un interesse distinto dell’ente rispetto all’individuo. Sulla base del principio del cumulo, di cui si è detto, non solo si avrà una pena per la persona fisica-reo ma, lo stesso ente, potenzialmente, subirà pene con grande carica afflittiva.

Chiaramente si pone un problema nel momento punitivo che tocca da un lato il principio del ne bis in idem e dall’altro il principio di proporzionalità. Un duplice carico sanzionatorio che nasce da una indiscriminata sottoposizione al Decreto: da un lato l’ente sarà sicuramente destinatario di una pena perché in alcun modo, come detto, riuscirà ad andarne esente e, dall’altro, si avrà una condanna del manager-proprietario in veste di impresa e di imprenditore.

Parlare di colpa di organizzazione permette di aggirare soltanto l’ostacolo dell’idem factum: l’ente risponde per qualcosa di diverso del mero reato commesso dalla persona fisica. Invero, nelle realtà esili, nelle quali non esiste una organizzazione e, se esistente, davvero minima, non è possibile in alcun modo superare l’ostacolo del medesimo agente: l’impresa è alter ego dell’imprenditore; lo schermo societario non è abbastanza “spesso” per ritenere ente e persona fisica due soggetti differenti. Il tema della ricerca di un equilibrio di sanzioni tra ente e persone fisiche si presenta insistente ogni qual volta, ad una personalità giuridica, non si accompagna una pluralità di soci.

L’unisoggettività crea una duplicazione di sanzioni in capo a quello stesso soggetto che viene formalmente considerato come “sdoppiato” in aperto contrasto con i dettami della C.e.d.u. Ebbene, nel caso di società con una semplificazione strutturale, la doppia sanzione è avvertita dallo stesso soggetto, ed è inutile nascondersi e fare leva sulla «alterità giuridica e patrimoniale della persona giuridica rispetto a quella fisica». Non si può parlare di autonomia giuridica e patrimoniale tra i due soggetti in campo: il soggetto sottoposto a sanzione è “sostanzialmente” lo stesso.

Qualora poi, si volesse ammettere (paradossalmente) questa doppia risposta sanzionatoria come legittima, è bene soffermarsi sul principio di proporzionalità quale prius logico del principio della meritevolezza della pena. Bisogna chiedersi se sia davvero legittimo comminare sanzioni allo stesso soggetto secondo due diversi paradigmi ascrittivi.

Se la pena nasce per “indurre l’ente ad essere virtuoso” allora pare doversi omettere nei casi in cui tale risultato sia già stato raggiunto o non necessario. In termini più chiari, è corretto e legittimo non punire l’ente qualora la sanzione comminata all’imprenditore impresa abbia già ottenuto tale finalità e, viceversa, qualora la sanzione non sia necessaria perché l’ente non avrebbe potuto essere diverso da come era.

La responsabilità dell’ente è stata costruita nel nostro ordimento come un “modo colposo di essere”. Ecco allora la necessità che la colpevolezza o l’essere colpevole sia legato con la capacità di essere virtuoso: non solo l’aver adottato delle cautele organizzative ma, soprattutto, l’averlo potuto fare. Viene in rilievo il principio di inesigibilità, indissolubilmente legato al principio di colpevolezza, quale criterio guida per punire ogni qual volta la condotta conforme a legge sia esigibile.

La giurisprudenza dovrebbe prestare attenzione anche ai fattori che possono inficiare la concreta capacità di un ente di conformarsi agli standard doverosi di diligenza organizzativa al fine di verificare in concreto l’esigibilità soggettiva di un’organizzazione conforme ai parametri obiettivi di diligenza. Un correttivo, se volessimo, valido ancora una volta per l’individuo ma non per l’ente di piccole dimensioni, gravato dell’onere di  costituire un sistema di controlli più articolato della sua stessa semiorganizzazione.

L’affidare al principio di esigibilità la punibilità o meno di tali enti sembrerebbe correggere quella che ad oggi è una responsabilità oggettiva: l’ente sottoposto alla disciplina solo perché formalmente definito ente, anche se, in sostanza, tale da non poter adottare quelle cautele preventive di cui il Decreto chiede l’implementazione. Se non si ritiene di dover escludere, ex ante, tutti quegli enti che si presentano come poco strutturati, dovrebbe quantomeno porsi la necessità di escludere una loro colpa nella fase della condanna, perché inesigibile quanto chiesto loro preventivamente.

L’ente deve essere punito per non aver adottato quel compendio di cautele che lo Stato ad esso rimanda e non perché soggetto meta-individuale in sostanza imprenditore senza alcuna organizzazione complessa. L’inesigibilità, dunque, quale limite a quella colpevolezza diffusa degli enti di piccole dimensioni solo formalmente inadempienti ai dettami della disciplina da responsabilità da reato degli enti.

Si giunge alla conclusione di dover prescindere da quel principio del cumulo che non sempre può ritenersi applicabile. In presenza di imprese poco strutturate e con mancanza di alterità al vertice, bisogna decidere chi dei due soggetti poter rimproverare e punire. L’ente, oramai pieno soggetto di diritto al pari dell’individuo, è chiamato a rispondere di una responsabilità amministrativa che affida la sua giurisdizione al giudice penale e, se diviene un imputato a tutti gli effetti, come tale dovrà essere trattato. L’ente imputato potrà essere sempre e solo un ente che abbia quella organizzazione sostanziale tale da non creare quella incostituzionalità diffusa di cui si è argomentato.

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