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I soggetti apicali di fatto

L’art. 5 del D.Lgs. 231/2001 prevede che l’ente è responsabile per i reati presupposto commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da due categorie di soggetti, ovverosia gli “apicali”, da un lato, e i “sottoposti”, dall’altro.

Nel novero dei soggetti appartenenti alla prima categoria, la norma introduce un’ulteriore distinzione: al ricorrere degli altri criteri di imputazione, l’ente può essere ritenuto responsabile per reati commessi non solo da apicali “di diritto” (“persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale”), ma anche da apicali “di fatto” (“persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo” dell’ente).

Con la sentenza n. 3211 del 16 gennaio 2024, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione fornisce una propria interpretazione in merito alla nozione di “esercizio di fatto della gestione e del controllo dell’ente” ed all’estensione della categoria dei soggetti apicali “di fatto”.

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda anche la condanna di una società per l’illecito amministrativo di cui all’art. 24-bis del D.Lgs. 231/2001 in relazione alla commissione del reato di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico (art. 615-ter c.p.) da parte di soggetti non ancora assunti dalla società, ma entrati a far parte della stessa solo in un momento successivo.

A fronte della doglianza della società, che sosteneva di essere stata erroneamente ritenuta responsabile di fatti di reato commessi dagli imputati quando questi ultimi non erano ancora alle dipendenze della società medesima, la Corte di legittimità annulla con rinvio il capo della sentenza in esame, riconoscendo che, proprio in ragione della peculiare posizione degli imputati, nelle decisioni di merito avrebbe dovuto essere compiuto un accertamento sulla possibilità di considerare gli stessi, in virtù dell’art. 5, lett. a), ultima parte, del D.Lgs. 231/2001, “persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso”.

Al fine di guidare le valutazioni del giudice del rinvio, la Suprema Corte, formula, quindi, alcuni princìpi di diritto sul significato da attribuire alla suddetta locuzione, intervenendo anche nell’ampio dibattito sviluppatosi in merito all’accezione da attribuire alla nozione di “controllo di fatto”.

La Corte di legittimità parte dai seguenti assunti:

  • il legislatore ha inteso limitare la possibilità di attribuire all’ente la responsabilità per gli illeciti commessi da soggetti che non rivestono incarichi formali apicali alle sole ipotesi nelle quali detti soggetti esercitino sia la gestione sia il controllo della società (come, peraltro, reso evidente dall’utilizzo della locuzione congiuntiva “e”);
  • per l’interpretazione della nozione di “gestione di fatto” dell’ente soccorrono gli indici presuntivi previsti dall’ 2639 c.c. ai fini della definizione della categoria dell’amministratore di fatto.

Fatte queste premesse, la Corte passa poi all’analisi del controverso concetto di “controllo di fatto”, enucleando alcuni princìpi di diritto che segnano un vero e proprio punto di svolta rispetto all’orientamento sinora maggioritario.

In particolare, tale precedente orientamento, sostenuto peraltro anche dalla “Relazione ministeriale al D.Lgs n. 231/2001”, sposa una nozione restrittiva di controllo, ritenendo che lo stesso debba essere inteso esclusivamente quale “dominio” sulla società ai sensi dell’art. 2359 c.c. Secondo tale concezione, la nozione di controllo non sarebbe, invece, ricollegabile all’attività di vigilanza svolta dai sindaci all’interno dell’ente. Pertanto, l’esercizio di fatto della gestione e del controllo sarebbe configurabile solo nell’ipotesi dell’azionista dominante, non amministratore di diritto, che detta dall’esterno le linee della politica aziendale e il compimento di determinate operazioni.

Da tale impostazione impostazione derivano le seguenti conseguenze applicative:

  • per poter qualificare un soggetto quale apicale “di fatto”, è necessario che all’esercizio in concreto di funzioni gestorie si accompagni anche la posizione di azionista dominante;
  • viene esclusa, ai fini dell’attribuzione all’ente della responsabilità ai sensi del D.Lgs. 231/2001, la rilevanza dei reati commessi dai componenti degli organi di controllo (anche considerato che gli stessi, non esercitando funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente, non parrebbero rientrare nella categoria dei soggetti apicali “di diritto”).

Nella pronuncia in esame, la Corte di legittimità, discostandosi dal citato orientamento, ritiene non condivisibile l’impostazione interpretativa che riferisce il termine “controllo” alla sola nozione delineata dall’art. 2359 c.c. e adotta una soluzione interpretativa di carattere estensivo, secondo la quale la nozione di controllo ricomprende “anche un’attività di ‘controllo’ e di vigilanza o, comunque, di verifica ed incidenza nella realtà economico patrimoniale della società, sovrapponibile a quella dei sindaci o degli altri soggetti formalmente deputati a tali attività”.

Come sottolineato dalla Corte, tale interpretazione più ampia appare preferibile in quanto coerente con la ratio dell’introduzione nel nostro ordinamento della responsabilità ai sensi del D.Lgs. 231/2001, con cui il legislatore ha voluto “colpire con sanzioni amministrative di carattere economico ed interdittivo l’attività sempre più insidiosa anche dal punto di vista criminale posta in essere dalla società mediante soggetti che a vario titolo operano per raggiungere le finalità, talora illecite, che essa si propone”.

La Suprema Corte effettua, poi, un’ulteriore precisazione, affermando che, per qualificare un soggetto come apicale “di fatto”, è richiesto che almeno una delle funzioni di gestione e controllo (e dunque non necessariamente entrambe) sia esercitata in via di mero fatto da parte del soggetto che ha commesso il reato; pertanto, in via esemplificativa, “la società può essere chiamata a rispondere – ove, beninteso, il reato sia stato commesso nel suo interesse o vantaggio – anche per i reati commessi dai componenti formali del collegio sindacale i quali in concreto svolgano, come attestato dalla ricorrenza degli indici disvelatori della qualifica ex art. 2639 cod. civ., anche il ruolo di amministratori di fatto dell’ente”.

Tale soluzione ermeneutica comporta un’estensione del perimetro di applicazione della normativa in parola, determinando un’ampliamento della platea dei soggetti apicali “di fatto” le cui condotte illecite possono fondare la responsabilità dell’ente.

Secondo la tesi accolta dalla Corte, infatti, oltre alle figure del “socio sovrano” e del “socio tiranno”, nella categoria dei soggetti apicali di fatto sarebbero riconducibili anche l’amministratore di fatto (a prescindere dalla concorrente qualifica di socio), che eserciti un’attività di controllo nei termini indicati dalla pronuncia in esame, e i sindaci, ove qualificabili anche come amministratori di fatto.

Tutto ciò ricordando che perché si possa attribuire a un soggetto la qualifica di amministratore di fatto di una società, è necessario che questi, nell’ambito della stessa, eserciti, in modo continuativo e significativo, e non meramente episodico od occasionale, tutti i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione o anche soltanto di alcuni di essi.

In particolare, le caratteristiche definite dalla giurisprudenza per l’attribuzione della qualifica di amministratore di fatto sono le seguenti:

  1. autonomia decisionale e poteri di controllo;
  2. programmazione e adozione di decisioni che investano globalmente la società e il futuro della stessa;
  3. individuazione come organo direzionale e gestionale anche da parte dei soggetti terzi rispetto alla compagine sociale;
  4. esercizio in concreto e nel continuo di funzioni quali il controllo della gestione sotto il profilo contabile e amministrativo, la formulazione di programmi e l’emanazione di direttive.

Da ultimo, la Corte di legittimità ha fornito un’ulteriore indicazione di assoluto rilievo: in caso di commissione di reati nell’interesse o a vantaggio dell’ente da parte di soggetti apicali di fatto, non può trovare applicazione l’esimente di cui all’art. 6 del D.Lgs. 231/2001.

La Corte osserva, infatti, che “se la società è gestita e controllata in modo occulto, ciò significa che la stessa non si è dotata, se non sul piano meramente formale, di assetti organizzativi per la prevenzione dei reati, che dunque non possono considerarsi adeguati, anche ove gli stessi siano conformi ai codici di comportamento approvati dal Ministero della giustizia ex art. 6, comma 3, del detto decreto”.

 

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