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Inquinamento ambientale e accertamenti tecnici (Cass. Pen. 32498/2022)

Per il reato di inquinamento ambientale, richiamato fra gli altri anche all’art. 25 undecies d.lgs. 231/2001, le condotte di deterioramento o compromissione del bene non richiedono specifici accertamenti tecnici. A fornire questa interessante indicazione è stata la Corte di Cassazione Sez. III, con la sentenza n.32498/2022.

La pronuncia trae origine dalla decisione del Tribunale di Lecce, che ha confermato il decreto del GIP che aveva disposto il sequestro preventivo di un terreno adibito all’estrazione di materiali inerti, in relazione alla contravvenzione di abusiva coltivazione di cava e, soprattutto, al delitto di inquinamento ambientale.

Avverso tale decreto, la difesa ha proposto ricorso per Cassazione, lamentando la carente motivazione relativa alla sussistenza del fumus, riferito alla fattispecie contravvenzionale e una carenza probatoria relativa all’accertamento della pericolosità del fatto e della sua riconducibilità alla fattispecie in esame, in quanto la condotta posta in essere non è idonea a compromettere significativamente la qualità dell’aria.

A tale doglianza, la Cassazione ha risposto che, per configurarsi il reato di inquinamento ambientale, le due condotte di “deterioramento” o “compromissione” del bene – più volte oggetto di diversi scontri dottrinali – non richiedono l’espletamento di specifici accertamenti tecnici, ritenendo sussistente il fumus del delitto di inquinamento ambientale e che, ai fini dell’emissione di un provvedimento di sequestro preventivo, richiede un’elevata possibilità “di cagionare una compromissione o un deterioramento, significativi e misurabili del bene tutelato” (così Cass. n. 52436/2022).

Nonostante ciò, i giudici cautelari avevano erroneamente ritenuto sussistente il fumus del delitto in esame, a seguito di un’attività estrattiva durata pochi giorni e prevalentemente consistente in “uno scorticamento dello strato superficiale tufaceo, improduttivo sia di immissioni di gas nocivi valevoli a comprometterne significativamente la qualità dell’aria, sia di sversamenti sul suolo o di infiltrazioni nel sottosuolo di sostanze inquinanti, causative del deterioramento dei corpi recettori o dell’inquinamento della falda acquifera”.

Il reato di inquinamento ambientale, introdotto dalla legge 68/2015, è previsto e punito dall’art. 452 bis c.p., che stabilisce la pena della reclusione da due a sei anni nei confronti di “chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili 1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo;2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna”.

La giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito la natura dell’illecito, sostenendo che il delitto di inquinamento ambientale è un reato di danno; tale reato non tutela la salute pubblica, ma l’ambiente in quanto tale e presuppone l’accertamento di un concreto pregiudizio a questo arrecato, secondo i limiti di rilevanza determinati dalla nuova fattispecie incriminatrice, i quali non richiedono la prova della contaminazione del sito nel senso indicato dagli artt. 240 e seguenti D. lgs. n. 152/2006.

Tale pronuncia, dunque, si pone efficacemente nel solco ermeneuticamente tracciato dalle precedenti sentenze, le quali definivano positivamente i contorni sostanziali e processuali della fattispecie in esame, inoltre, essa sottolinea nuovamente come si tratti di una fattispecie di danno volta a tutelare non tanto la salute pubblica, quanto la salubrità delle matrici ambientali.

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