L’istituto dell’ammissione alla prova di cui all’art. 168 bis c.p. non trova applicazione con riferimento alla disciplina della responsabilità degli enti di cui al D. Lgs. n. 231 del 2001. La Corte di Cassazione, con la sentenza 14840/2023, si è pronunciata su questa particolare tematica.
Con sentenza del dicembre 2019, il Tribunale di Trento dichiarava di non doversi procedere nei confronti di una società, ai sensi dell’art. 464 septies c.p.p., per essere estinto l’illecito oggetto di contestazione (art. 25-septies co. 3 D. Lgs. 231/2001) nei confronti dell’ente – nascente dal reato di lesioni colpose contestate al relativo legale rappresentante – per esito positivo della prova ai sensi dell’art. 168 ter c.p.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Trento proponeva ricorso per Cassazione deducendo – per ciò che rileva in tale sede – una violazione e falsa interpretazione degli articoli 168 bis c.p. e degli artt. 62 e ss. del D. Lgs. n. 231/2001 non essendo applicabile l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova nei confronti della persona giuridica imputata.
La Suprema Corte, accogliendo la prospettazione del P.G. in relazione a tutti i motivi di ricorso, ha addotto argomentazioni di varia natura a sostegno della tesi dell’inapplicabilità della “probation” a carico dell’ente.
Rilevata la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale sul punto, le Sezioni Unite hanno sposato l’orientamento maggioritario secondo cui, in primo luogo, la messa alla prova deve qualificarsi come istituto sostanzialmente penale connotato da elementi propri del trattamento sanzionatorio.
Tanto premesso, un simile istituto di natura penalistica non può trovare applicazione nei confronti della persona giuridica che risponde a titolo di una responsabilità che – sulla scorta della giurisprudenza maggioritaria, cfr. Cass. SS. UU. c.d. Espenhahn n. 38343/2014 – deve qualificarsi quale tertium genus, ossia una responsabilità ibrida fra connotati puramente amministrativi e garanzie penalistiche.
Tanto premesso, riconosciuta la valenza di trattamento sanzionatorio penale della messa alla prova nei contenuti del programma di trattamento, la Corte rileva che l’istituto non possa essere oggetto di applicazione analogica, realizzandosi diversamente una violazione del principio di legalità e di riserva di legge (art. 25 Cost.) e il divieto di analogia in malam partem.
In secondo luogo, la Corte argomenta l’inapplicabilità della messa alla prova all’ente in quanto istituto intrinsecamente ritagliato sulla figura dell’imputato persona fisica (e dunque non rientrante nella clausola di compatibilità di cui all’art. 35) visti gli specifici contenuti dei programmi di trattamento (la cui idoneità deve essere valutata dal giudice secondo i criteri ex art. 133 c.p.) nonché – secondo argomentazioni letterali – in ragione della totale assenza nel testo del D. Lgs. 231/2001 di qualsivoglia riferimento a tale istituto nell’ambito della sezione dedicata ai riti alternativi.
Da ultimo, la Corte conclude che il D. Lgs. 231/2001 prevede espressamente nei confronti dell’ente forme di riparazione finalizzate alla disapplicazione delle sanzioni interdittive o alla conversione in sanzioni pecuniarie ma, diversamente, non prevede alcun meccanismo finalizzato all’estinzione dell’illecito oggetto di contestazione proprio, invece, della messa alla prova.