La Quarta Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39615 del 2022, ha ripercorso il tema dell’applicabilità del d.lgs. 231/2001 con particolare riferimento ai reati colposi.
La vicenda oggetto dell’attenzione della Corte traeva origine dal riconoscimento della responsabilità penale in capo ad una società tratta a giudizio per rispondere dei reati di cui agli artt. 5 e 25-septies del decreto 231 in ordine alle lesioni colpose patite da un dipendente della società a seguito della violazione delle norme poste a tutela della sicurezza sul lavoro, in occasione di un’operazione di sostituzione di un nastro trasportatore.
A seguito della condanna inflitta dalla Corte di Appello, la società ricorreva avverso la sentenza dolendosi della contraddittorietà e illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza del reato presupposto nonché della violazione di legge e della mancanza e illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza dei requisiti dell’interesse e del vantaggio ex art. 5 d.lgs. 231/2001.
In primo luogo, gli Ermellini, chiamati a pronunciarsi su tali questioni, ripercorrono l’evoluzione giurisprudenziale della responsabilità penale degli enti introdotta dal decreto 231, il quale aveva realizzato una flessione del brocardo societas delinquere non potest, in favore del riconoscimento di una responsabilità dell’ente autonoma ma connessa, da un punto di vista sia soggettivo (sussistenza di un rapporto tra persona fisica autrice del reato ed ente) sia oggettivo (la persona fisica deve aver agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente) alla realizzazione di un illecito amministrativo discendente dal compimento di un reato (fra quelli espressamente previsti dagli artt. 24 e ss. del decreto) da parte di una persona fisica.
La responsabilità degli enti viene quindi definita come una forma di responsabilità da colpa di organizzazione, scaturente dal malfunzionamento della struttura organizzativa dell’ente, la quale dovrebbe essere provvista di adeguati modelli organizzativi atti a prevenire la commissione di reati.
Giova ricordare, che originariamente, i delitti colposi di omicidio e lesioni personali sul lavoro, come quelli oggetto di contestazione nel caso de quo, non rientravano nell’elenco di cui al decreto 231, ma, solo successivamente, con l’art. 9, comma 1, della l. 123/2007, è stato inserito nel decreto l’art. 25-septies disciplinante l’omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norma sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, poi ulteriormente modificato, dall’art. 300 del d.lgs. 81/2008.
A seguito di tale introduzione, tanto in giurisprudenza quanto in dottrina, ci si è interrogati su come sia possibile riconoscere una sussistenza di responsabilità dell’ente, in presenza di morte o lesioni causate dalle persone fisiche previste dal decreto, se il criterio indispensabile per il riconoscimento di tale responsabilità è la commissione del reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente, presentandosi i reati colposi come inconciliabili con qualsivoglia ipotizzabile interesse o vantaggio in capo all’ente, che potrebbe solo ottenere effetti negativi da tali avvenimenti.
La Suprema Corte, così, dopo aver tratteggiato lo sviluppo giurisprudenziale relativo ai due parametri di imputazione oggettiva di cui all’art. 5 del decreto, distinguendo tra la teoria cd. unitaria, secondo cui interesse e vantaggio incarnerebbero un unico criterio e la teoria per cui, all’opposto, si tratterebbe di criteri diversi ed alternativi, ha richiamato quanto in precedenza affermato dalle Sezioni Unite in occasione del celebre caso ThyssenKrupp, stabilendo che:
“in materia di responsabilità amministrativa degli enti derivante da reati colposi di cui all’art. 25-septies d.lgs. 231/2001, i criteri di imputazione oggettiva debbano essere considerati quali alternativi e concorrenti tra di loro e riferiti non all’evento, bensì alla condotta”.
Pertanto, ricorre il requisito dell’interesse dell’ente qualora l’autore del reato abbia consapevolmente violato le norme cautelari allo scopo di conseguire un’utilità (solitamente di natura economica) per l’ente, mentre sussiste il requisito del vantaggio nel caso in cui la persona fisica abbia violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, riuscendo a raggiungere l’obiettivo di una riduzione dei costi e un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto.
Alla luce di tali considerazioni, l’interesse va inteso come un criterio soggettivo rappresentante l’intento del reo di arrecare un beneficio all’ente mediante la commissione del reato, indagabile esclusivamente ex ante, risultando irrilevante se il profitto sperato sia giunto o meno a realizzazione.
Nel caso dei reati colposi di evento, dunque, perché l’interesse per l’ente sussista sarà necessaria la consapevolezza della violazione delle norme antinfortunistiche, poiché è da tale violazione che la persona fisica autrice del reato ritiene di poter conseguire un beneficio economico per l’ente.
Per ciò che concerne il criterio del vantaggio, invece, deve essere considerato come un criterio di natura oggettiva, legato all’effettiva realizzazione di un profitto in capo all’ente quale conseguenza del reato posto in essere, valutabile esclusivamente ex post.
Elemento costitutivo del fatto tipico integrato dalla violazione colpevole della norma cautelare è la cd colpa di organizzazione dell’ente, assimilabile alla colpa della persona fisica.
L’enfasi posta sulla colpa di organizzazione fa sì che la mancata adozione e l’inefficace attuazione degli specifici e idonei modelli di organizzazione non può assurgere ad elemento costitutivo della tipicità dell’illecito dell’ente, ma costituisce solo una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione, la quale, tuttavia, deve essere specificamente provata dall’accusa.
La Suprema Corte, dunque, sulla base di tali assunti, oltre a ribadire, ancora una volta, secondo quale accezione debbano essere interpretati i criteri dell’interesse e del vantaggio con riferimento ai reati colposi, evidenzia anche come gli elementi costitutivi dell’illecito dell’ente, oltre alla compresenza della relazione organica e teleologica tra la persona fisica responsabile del reato presupposto e l’ente, sono la colpa di organizzazione, il reato presupposto e il nesso causale che deve necessariamente intercorrere tra i due.
I giudici di legittimità, nel caso di specie, ritenendo che nulla fosse stato specificato dalla Corte d’appello circa la configurabilità della colpa di organizzazione dell’ente, né tantomeno sull’aspetto relativo al concreto assetto organizzativo adottato al fine di prevenire la commissione di reati della specie di quelli occorsi e sull’eventuale incidenza di quest’ultimo sulla verificazione del reato presupposto, hanno pertanto ritenuto di annullare con rinvio la sentenza di gravame.