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Ammissibile l’istituto della messa alla prova dell’Ente: la “creazione” di un diritto giusto?

Con la recente sentenza n. 3601/2023, il Tribunale di Bari in composizione monocratica, dichiarando ammissibile l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova (ex art. 168-bis c.p.) nei confronti di una società imputata ex D. Lgs. 231/2001, ha conseguentemente sospeso il procedimento penale – definendo un programma di trattamento compatibile con le peculiarità derivanti dalla particolare natura giuridica dell’imputato – e, a seguito del riconoscimento dell’esito positivo del programma medesimo, ha dichiarato l’estinzione dell’illecito amministrativo dipendente da reato oggetto di contestazione.

La vicenda prende le mosse dalla contestazione, nei confronti di una S.r.l., dell’illecito previsto e punito dall’art. 25-septies D. Lgs. 231/2001 (lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro).

L’ente, prima dell’apertura del dibattimento, aveva provveduto al risarcimento del danno nei confronti della persona offesa e aveva eliminato le carenze organizzative che avevano funzionalmente cagionato la commissione del fatto di reato adottando ed efficacemente attuando un modello di organizzazione e gestione ex art. 6 del medesimo D. Lgs., con ciò integrando le condotte che – ai sensi dell’art. 17 cit. – producono una mitigazione del trattamento sanzionatorio nei confronti dell’ente medesimo, permettendo una riduzione della sanzione pecuniaria definitiva.

Successivamente, l’ente presentata richiesta di ammissione all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, contestualmente allegando un programma di trattamento (ai sensi dell’art. 464-bis c.p.p.) compatibile con la peculiare natura giuridica del richiedente.

Ritenendo di discostarsi dal più consolidato orientamento giurisprudenziale che, riassunto nella recentissima sentenza SS. UU. del 6 aprile 2023 n. 14840, non ritiene ammissibile l’istituto in parola nei confronti dell’ente imputato ex D. Lgs. 231/2001, il Giudice di merito – nell’ammettere l’ente alla messa alla prova – ha addotto le seguenti argomentazioni.

In primo luogo, il Tribunale ha ritenuto che – diversamente da quanto affermato dai Giudici di legittimità – la mancata previsione del procedimento alternativo di cui all’art. 168-bis c.p. e 464-bis c.p.p. e ss. fra i riti alternativi accessibili all’ente non rappresenti una chiara volontà del legislatore di escluderne l’ammissibilità in toto, ma debba – invece – “tanto più verosimilmente [intendersi, n.d.r.] una mera svista legislativa”, ulteriormente suffragata dalla clausola di estensione della disciplina processual-penalistica contenuta nel codice di rito prevista dagli artt. 34 e 35 del medesimo D. Lgs. in parola.

Una simile soluzione, secondo il Giudice di merito, si desumerebbe da una lettura panoramica della disciplina dettata dal D. Lgs. 231/2001 la quale – discostandosi da una logica meramente punitiva e repressiva dell’ente colpevole – persegue, invero, una “logica di prevenzione del crimine da perseguirsi proprio attraverso la rieducazione dell’ente”.

Inoltre, a ciò non osterebbe in alcun modo il divieto di analogia, quale corollario del principio di stretta legalità penale, nell’applicazione della legge penale in quanto – prescindendo da qualsivoglia qualificazione formale del trattamento sanzionatorio quale “pena” in sento tecnico – l’istituto della messa alla prova presenta, senz’altro, effetti favorevoli nei confronti del soggetto richiedente.

Infine, il medesimo Giudice – addivenendo, forse, all’enunciazione di una norma di creazione giurisprudenziale e in nessun modo positivizzata – ritiene ammissibile la messa alla prova nei confronti dell’ente sulla “[consentendola, n.d.r.] solo per quegli illeciti dipendenti da reati per i quali anche le persone fisiche possono accedere a tale procedimento speciale”.

In definitiva, la “coraggiosa” pronuncia in commento, se da una parte sfocia (irrimediabilmente) in un’attività che – piuttosto che essere applicazione del principio di analogia in bonam partem – addiviene alla vera e propria “creazione” giurisprudenziale del diritto positivo (almeno in relazione ai presunti requisiti applicativi del procedimento speciale in parola), d’altro canto presenta il pregevole coraggio di esplicitare – senza mezzi termini – come il procedimento speciale in parola (almeno astrattamente) sarebbe suscettibile di conformarsi perfettamente alle finalità rieducative e di “riconduzione alla legalità” fatte proprie dalla logica normativa del D. Lgs. 231/2001.

In ogni caso, in assenza di un chiaro intervento del legislatore in tal senso, resta tanto evidente quanto vano lo sforzo “creativo” della giurisprudenza, destinato a scontrarsi irrimediabilmente con le salde argomentazioni contrarie fatte proprie dai Giudici di legittimità.

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