È di recente pubblicazione l’ordinanza con cui Tribunale di Perugia è tornato a pronunciarsi sulla vexata quaestio circa l’ammissibilità della sospensione del procedimento con messa alla prova nei confronti dell’ente “imputato” ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001.
Come già affermato dalla recente sentenza n. 3601/2023 (Tribunale di Bari), i giudici di merito hanno nuovamente ritenuto di doversi discostare dai recentissimi approdi fatti propri dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (v. Sez. Un. 6 aprile 2023, n. 14840): diversamente da queste, l’ordinanza in commento ha ritenuto ammissibile la messa alla prova nei confronti dell’ente, ritenendo – ancora una volta – l’istituto compatibile tanto con la natura giuridica della responsabilità da reato degli enti, quanto con le dinamiche procedimentali che guidano l’accertamento della responsabilità delle persone giuridiche.
Il presente commento intende, da una parte, analizzare il percorso argomentativo seguito dal giudice di merito nell’affermare l’applicabilità della messa alla prova dell’ente; dall’altra, esaminare quali contenuti, prescrittivi e riparatori, possano essere inseriti all’interno del programma di trattamento per rendere compatibili le finalità dell’istituto con la particolare natura giuridica dell’ente. Da ultimo, e da qui si intende prendere le mosse, non si può prescindere da una ricostruzione degli argomenti addotti dalle Sezioni Unite a sostegno della tesi contraria.
Come noto, il D. Lgs. 231/2001, all’art. 67, non annovera la sospensione del procedimento con messa alla prova fra gli istituti deflattivi accessibili all’ente; nondimeno, anche in assenza di una esplicita menzione, gli artt. 34 e 35 dello stesso decreto ammettono l’estensione agli enti delle norme del codice di rito penale, in quanto compatibili.
Appurato, pertanto, che non sussiste una preclusione assoluta all’applicabilità dell’istituto in parola agli enti, le Sezioni Unite hanno avallato la soluzione negativa, sulla scorta delle seguenti argomentazioni.
In primo luogo – stante la natura di “trattamento sanzionatorio penale” della messa alla prova, in ragione dei precisi contenuti prescrittivi che devono far parte del programma di trattamento – la Suprema Corte ha ritenuto che una sanzione di natura penale non possa essere automaticamente estesa ad una tipologia di responsabilità, quale quella degli enti, che configura un tertium genus rispetto a quella penale e amministrativa (cfr. SS. UU 24 aprile 2011, n. 38343 – Espenhahn).
Ritenuta la natura “sanzionatoria penale” della messa alla prova, la Corte ha statuito che l’estensione – in via analogica – di un “trattamento sanzionatorio” nei confronti di un soggetto (l’ente) nei cui riguardi lo stesso trattamento non sia stato previsto dal legislatore, costituirebbe una violazione del principio di legalità delle sanzioni penali.
In conclusione, le Sezioni Unite hanno ritenuto che i contenuti sanzionatori della messa alla prova previsti dall’art. 168-bis c.p. – fra cui l’affidamento dell’imputato ai servizi sociali per lo svolgimento di un programma comprendente lavori di pubblica utilità – unitamente ai contenuti del programma di trattamento, rendono tale istituto compatibile unicamente con la figura di un imputato persona-fisica e non anche di una persona giuridica.
Segnatamente, qualora i contenuti prescrittivi del programma di trattamento fossero estesi alla figura dell’ente, ciò comporterebbe che – in forza del principio di immedesimazione organica fra l’ente e il proprio organico – i soggetti apicali dovrebbero, in prima persona, sostenere un programma “rieducativo” secondo un meccanismo per cui «le colpe dell’ente ricadrebbero sugli organi e questi sarebbero chiamati a rieducarsi per conto di un soggetto diverso».
Svolta questa necessaria premessa, a seguito di una disamina dei casi di vincolatività del principio di diritto reso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e chiarita la non operatività di tale disciplina al caso di specie, il Tribunale di Perugia ha ritenuto di doversi discostare dalle conclusioni alle quali è giunta la giurisprudenza di legittimità.
In primo luogo, l’ordinanza in commento non ha ritenuto che la messa alla prova possa essere equiparata ad un “trattamento sanzionatorio penale”: infatti, diversamente da quanto avviene in fase di comminazione di una sanzione penale sic et simpliciter, l’istituto della messa alla prova non può prescindere da una dichiarazione di volontà in tal senso da parte dell’imputato.
Ciò, secondo i giudici di merito, è sufficiente a confutare la natura di “sanzione penale” riconosciuta dalle Sezioni Unite alla messa alla prova, unitamente al fatto che da una manifestazione di volontà in senso contrario da parte dell’imputato possa conseguire la revoca del beneficio (e dei relativi contenuti rieducativi inseriti nel programma di trattamento) e la ripresa del procedimento penale.
Ancora sul punto, l’ordinanza evidenzia come l’esito della buona riuscita del programma di trattamento consista nell’estinzione del reato: per tale ragione, l’istituto in esame non amplia il novero delle sanzioni comminabili ma, anzi, arricchisce il ventaglio dei procedimenti speciali a disposizione dell’ente per beneficiare di un esito processuale a sé più favorevole.
In secondo luogo, il Tribunale argomenta come la messa alla prova – che si sostanzia in una causa di estinzione del reato – possa essere oggetto di analogia in bonam partem in quanto le cause di estinzione del reato, non essendo norme di carattere eccezionale, non sono sottratte al procedimento di applicazione analogica favorevole al reo.
Da ultimo, i giudici di merito non hanno condiviso l’incompatibilità dei contenuti prescrittivi della messa alla prova con la natura giuridica dell’ente: in altri termini, l’istituto non è compatibile solamente con l’imputato persona fisica ma presenta profili che – con le specifiche del caso – possono essere modulati in modo tale da rendersi compatibili anche con la persona giuridica.
Ed infatti, il passaggio dell’ordinanza che (probabilmente) desta maggior interesse è proprio quello relativo alla definizione dei contenuti prescrittivi del programma di trattamento adattato alle specifiche caratteristiche dell’ente.
È stato ritenuto idoneo, ai fini della sospensione del procedimento, un programma di trattamento che – unitamente al risarcimento del danno e all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato – prevedeva:
- impegni di volontariato (finanziamento e svolgimento di un corso di formazione per studenti in tema di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro);
- lavori di pubblica utilità;
- atti di liberalità per il finanziamento di progetti ed attività di rilievo sociale (finanziamenti per l’acquisto di DPI dei lavoratori e acquisto di un’auto-medica per gli interventi di primo soccorso).
Parimenti, è stata valorizzata dal giudice di merito l’adozione di un Modello 231 da parte della società, ritenuto idoneo a prevenire la commissione di reati della stessa specie di quello verificatosi (art. 590 c.p., rilevante ai sensi dell’art. 25-septies D. Lgs. n. 231/2001), nonché sufficiente a fondare una prognosi di astensione dalla commissione di ulteriori reati della stessa specie, ai sensi dell’art. 464- quater, comma 3 c.p.p.
In conclusione, la questione continua ad essere di non facile inquadramento.
Da una parte, sembra potersi condividere la non radicale incompatibilità dei contenuti prescrittivi della messa alla prova con la particolare natura giuridica dell’ente avallata dai giudici di merito.
È indubbio che l’ente possa validamente provvedere al risarcimento del danno e all’eliminazione delle conseguenze negative del reato, entrambi elementi imprescindibili ai sensi dell’art. 168-bis c.p.; anzi, come la prassi ha dimostrato, è più frequente che tali condotte vengano poste in essere dall’ente piuttosto che dall’autore del reato presupposto.
Lo stesso potrebbe dirsi anche in relazione all’attuazione di un “programma di trattamento” che contenga prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità e ad attività di volontariato di rilievo sociale: attività che risultano essere astrattamente compatibili con la particolare natura giuridica dell’ente a condizione – quasi scontata – che queste siano attuate da soggetti legati all’ente da un rapporto di immedesimazione organica con l’ente e siano, pertanto, riconducibili al volere e all’agire dell’ente.
Dall’altra, è innegabile che, in assenza di una espressa disposizione in tal senso, la legittimazione dell’applicabilità della messa alla prova nei confronti dell’ente aprirebbe la strada ad un’eccessiva discrezionalità del giudice di merito nella valutazione dell’idoneità dei contenuti del programma di trattamento in relazione all’ente e, soprattutto, nell’individuazione delle tipologie di fattispecie di illecito amministrativo da reato per cui un tale istituto possa ammettersi.
In sostanza, la prassi sta dimostrando come vengano sempre più frequentemente a scontrarsi due opposti orientamenti: da una parte, le istanze “operative” di chi sostiene come la messa alla prova possa produrre notevoli benefici pratici, se applicata all’ente, in termini di deflazione del contenzioso e, soprattutto, di favorire l’eliminazione delle conseguenze dannose del reato e il relativo risarcimento del danno; dall’altra, le istanze garantiste di chi, in assenza di un’espressa disposizione sul punto, non intende aprire le porta ad una sorta di “deriva della discrezionalità” riconosciuta al giudice di merito nella definizione dei contenuti del programma di trattamento e, soprattutto, dei casi ammissibilità della messa alla prova nei confronti dell’ente.
Allo stato, è un dato di fatto la (ormai frequente) tendenza dei giudici di merito ad accordare la sospensione del procedimento con messa alla prova anche nei confronti degli enti, ciò ponendosi in contrasto con l’orientamento di segno opposto fatto proprio dalle Sezioni Unite.
In presenza di una prassi altalenante, disposta a discostarsi dall’orientamento espresso dalle Sezioni Unite, sarebbe auspicabile un intervento del legislatore, chiarificatore sul punto, finalizzato ad uniformare le divergenti prassi ormai diffuse.