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Organismo di vigilanza a prova di autonomia e indipendenza – Il Caso Banca Popolare di Vicenza (Corte. App. Venezia sent. n. 3348/2023)

La sentenza n. 3348/2023 della Corte d’Appello di Venezia, sulla vicenda relativa alla Banca Popolare di Vicenza, si è soffermata su un’interessante tema di responsabilità degli enti ex d.lgs. 231/2001.

Infatti, ha stabilito che un modello organizzativo con gravi carenze sia dal punto di vista della prevenzione di reati ritenuti centrali rispetto all’attività in concreto svolta dalla società, sia dal punto di vista della sulla fisionomia dell’Organismo di vigilanza, non è valutabile come concretamente attuato ed implementato.

La stessa sentenza ha affermato che «nel modello adottato, nulla di realmente specifico fosse previsto con riferimento alla prevenzione dei reati di aggiotaggio e di ostacolo alla vigilanza, fin dalla fase di profilazione dei rischi».

L’Organismo di Vigilanza è un soggetto chiave per il funzionamento di questo sistema di prevenzione. Tuttavia, nel caso concreto, si è rivelato tutt’altro che effettivo ed operativo, in quanto la sentenza, con riferimento alle condotte di aggiotaggio contestate, ha evidenziato la sostanziale inadeguatezza del modello.

I Giudici della Corte di Appello veneta hanno poi sostenuto come «il modello non fosse stato attuato e presidiato da un organismo di vigilanza realmente idoneo allo scopo (sotto lo specifico profilo della dotazione di adeguati poteri e, soprattutto, degli indispensabili requisiti di indipendenza)».

All’OdV, inoltre, non sono stati attribuiti specifici poteri di verifica preventiva sulla fondatezza delle notizie destinate a essere diffuse al mercato: questo, soprattutto, in quanto non risultavano esistenti flussi informativi fra l’Organismo e gli organi sociali. Le comunicazioni in uscita, inoltre, non venivano nemmeno inviate all’ODV a titolo informativo.

Il Modello aveva introdotto un Organismo di Vigilanza privo di autonomia effettiva rispetto alla direzione societaria: formalmente la direzione era affidata a un soggetto provvisoriamente, affiancato da due soggetti esterni. In particolar modo, emergeva che questi ricoprissero cariche legate alla società stessa: basti pensare che lo svolgimento della relazione sulle attività svolte dall’OdV era effettuata dal direttore generale durante il consiglio di amministrazione.

In un secondo momento, le funzioni di vigilanza venivano affidate al collegio sindacale, venendo a mancare ancora una volta il fondamentale requisito della indipendenza.

Così, la commissione dei reati non ha richiesto, per i giudici, condotte elusive e fraudolente del modello: “molto più semplicemente, detto modello non ha rappresentato ostacolo di sorta per la consumazione delle condotte di aggiotaggio e di ostacolo alla vigilanza, tanto che gli autori delle condotte delittuose non si sono minimamente dovuti preoccupare di aggirarlo”.

Cosa rappresenta questa sentenza per il sistema 231?

La Corte di Appello ha evidenziato la necessità che il Modello 231 sia caratterizzato da prescrizioni che non siano generiche, di portata generale o contenenti divieti marginali rispetto alla esigenza di prevenire i reati. Al contrario questo deve essere realmente calato nella realtà aziendale nella quale è destinato a trovare attuazione, in quanto dev’essere composto da vere e proprie contro-misure di prevenzione realmente idonee ed efficaci a prevenire i reati che più facilmente possono verificarsi.

Inoltre, i requisiti di indipendenza autonomia dell’Odv, assumono un’importanza sempre maggiore: questo emerge soprattutto con riferimento all’importanza della programmazione dell’attività di verifica dell’Organismo, tramite la redazione dei verbali dell’attività svolta, nonché sulle garanzie di riservatezza delle comunicazioni.

Nella vicenda in esame, la sentenza ha sottolineato come, fra l’OdV e i vertici aziendali esistesse una sorta di “osmosi completa”, a tal punto da non poter percepire i margini di autonomia ed effettività dell’attività di controllo.

I giudici hanno correttamente ricordato come «il modello organizzativo altro non rappresenta che uno strumento di gestione del rischio da commissione di determinati reati, ovverosia un dispositivo finalizzato a scongiurare la perpetrazione di attività delittuose poste in essere, come s’è detto, nell’interesse o a vantaggio dell’ente medesimo e, quindi, ad evitare le conseguenze sfavorevoli costituite, per l’ente in questione, dalle relative sanzioni».

Ciò significa che un Modello organizzativo adeguato deve essere caratterizzato dall’adozione e dalla conseguente attuazione di contro-misure di prevenzione idonee ed efficaci, le quali non solo devono rispondere ai parametri di cui agli artt. 6, 7 d.lgs. 231/2001, ma devono poi essere adeguate alla concreta situazione di riferimento.

Al contrario, nel caso in esame, il Modello è stato giudicato «caratterizzato da prescrizioni per lo più generiche contenenti indicazioni  di portata assolutamente generale per prevenire la commissione dei delitti in questione, in  larga parte risolvendosi nella previsione della adozione di un’organizzazione interna basata sui criteri di ripartizione di competenze e segregazione funzionale in ordine a specifiche attività, nonché di cura di adempimenti formali, ovvero nell’impartire divieti attinenti a profili marginali rispetto all’esigenza di prevenire i reati in esame».

 

I poteri e l’indipendenza dell’Organismo di Vigilanza

Il Modello in esame, prosegue la sentenza, «introduceva un organismo di vigilanza privo di autonomia effettiva rispetto alla direzione societaria, un ulteriore, decisivo profilo di inadeguatezza di tale strumento organizzativo».

Infatti, i giudici hanno ricordato come tanto il presidente quanto i due ulteriori componenti dell’organismo erano soggetti privi della necessaria indipendenza.

Significativa di tale legame tra OdV e vertici aziendali è la circostanza per cui la relazione sulle attività svolte dall’ODV era effettuata proprio dal direttore generale. Emerge chiaramente come si tratti di un «profilo di essenziale rilievo, solo a considerare l’assoluta centralità rivestita da un OdV dotato di effettivi, penetranti poteri, perché possa affermarsi l’idoneità del modello organizzativo».

Inoltre, i verbali delle riunioni dell’OdV non sono che «la plastica espressione di un organismo che interpretava il proprio ruolo in modo meramente formale».

La Corte poi esamina la situazione successiva alle attribuzioni delle funzioni di vigilanza al Collegio Sindacale, evidenziando, tuttavia, come «la situazione, sotto tale profilo, non sia affatto migliorata».

Il ricorso agli schemi predefiniti dalle associazioni di categoria

In conclusione, si fa riferimento ad un ulteriore aspetto.

Il modello adottato dall’istituto di credito vicentino ha seguito pienamente lo schema predisposto e predefinito dall’ABI.

In merito la Corta d’Appello non ha osservato nulla, se non che la giurisprudenza di legittimità ha precisato come nessun rinvio per relationem a schemi predisposti dalle associazioni di categoria (“best practices”), deve ritenersi operato dalla previsione ex art. 6, co. 3 d.lgs. 231/2001.

Infatti, i Modelli 231 possono essere adottati sulla scorta di schemi predefiniti, pur incorrendo nel rischio di un giudizio negativo circa l’adeguatezza del modello, che risulterebbe tutt’altro che “calato nella realtà aziendale nella quale è destinato a trovare attuazione”, per citare la stessa sentenza.

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