Con ordinanza depositata il 16.10.2024, il Tribunale di Biella, in accoglimento dell’eccezione sollevata dalla difesa dell’Ente, ha dichiarato nullo il decreto di citazione a giudizio – per genericità e indeterminatezza del capo di imputazione/incolpazione, ai sensi dell’art. 552 co. 1 lett. c) e comma 2 c.p.p. – con conseguente restituzione degli atti al Pubblico Ministero.
La decisione muove dalla doglianza difensiva per la quale il campo di imputazione non riportava il profilo di colpa di organizzazione addebitabile all’ente, con ciò omettendo di indicare un elemento che attiene alla tipicità dell’illecito amministrativo.
Il Giudice ha osservato come non meriti accoglimento l’obiezione del PM per la quale non è onere dell’accusa provare o indicare la colpa di organizzazione, gravando sulla difesa provare l’adozione e l’efficace attuazione del modello di organizzazione, prevedendo la norma una sorta di inversione dell’onere probatorio.
Infatti, specifica l’ordinanza, da un lato, proprio perché l’ente risponde per fatto proprio la sua responsabilità non può discendere dal solo accertamento della commissione del reato presupposto da parte dell’apicale, ma va provato che non sono stati predisposti accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato.
Il Giudice ha, inoltre, precisato di non poter condividere l’assunto della coincidenza tra colpa di organizzazione e mancata adozione o inefficace attuazione dei modelli di organizzazione e di gestione, con la conseguenza che se l’ente non produce il modello o non ne prova la efficace attuazione sarebbe ex se provata la colpa di organizzazione, mentre se fornisce tale prova, l’ente va mandato assolto.
La mancata adozione del modello organizzativo o la sua mancata efficace attuazione non è elemento del fatto tipico, ma solo un elemento di prova della colpa di organizzazione che, in quanto elemento costitutivo della fattispecie, deve essere approfondito. L’accusa deve indicare quantomeno quale profilo di colpa viene addebitato all’ente e, soprattutto, in cosa è consistita la “colpa di organizzazione” da cui è derivato il reato presupposto.
Il provvedimento si segnala per essere uno tra i primi, nel panorama giurisprudenziale nazionale, a recepire le censure difensive in merito alla “genericità” del capo di imputazione dell’ente, di fatto iniziando ad abbandonare la precedente impostazione interpretativa che, determinando un’inversione dell’onere della prova, poneva in capo alla difesa dell’ente la necessità di dover sempre e comunque provare, ai fini liberatori dalla responsabilità, l’idoneità del modello organizzativo, semplificando fino ad annullare il contestuale onere di contestazione in capo al pubblico ministero.
Un importante segnale, che lascia ben sperare rispetto al raggiungimento di standards di legalità tali da garantire un processo “giusto” anche nei confronti dell’ente.
In tale ottica si inserisce la sentenza n. 2062 dello scorso 17 gennaio con la quale la III Sezione della Suprema Corte ha confermato che non è abnorme, perché non determina una stasi insuperabile del procedimento penale, il provvedimento con cui il Giudice dichiarava la nullità del decreto di citazione diretta a giudizio emesso nei confronti dell’ente e degli atti conseguenti per vizio di esercizio dell’azione penale perché non conforme al disposto dell’art. 59, comma 1, d.lgs 231/2001, ordinando la restituzione degli atti al P.M.
Il Tribunale rilevava che secondo la disciplina speciale di cui all’art. 59, comma 1 la responsabilità amministrativa delle società deve essere contestata “in uno degli atti indicati dall’art. 407 bis, comma 1, del codice procedura penale” e, quindi, formulando l’imputazione nei casi previsti nei titoli II, III, IV, V e V bis del libro VI ovvero con richiesta di rinvio a giudizio, mentre non era contemplato il decreto di citazione diretta a giudizio ex art. 552 c.p.p., onde l’azione penale, esercitata nelle forme del decreto di citazione diretta, risultava non correttamente esercitata nei confronti dell’ente.