Confisca ex art. 19 D. Lgs. n. 231/2001: in caso di reato in contratto, la quantificazione del profitto confiscabile deve avvenire al netto delle utilità comunque percepite dal danneggiato per effetto dell’erogazione delle prestazioni contrattuali.
Con la recente sentenza n. 37326 depositata il 13 settembre 2023, la II Sezione Penale della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulle modalità di corretta quantificazione del profitto confiscabile nei confronti dell’Ente ai sensi dell’art. 19 D. Lgs. n. 231/2001.
Con la sentenza impugnata, la Corte d’Appello di Torino condannava i due imputati per il reato di cui all’art. 640, co. 2 n. 1 c.p. (…) e, contestualmente, confermava la responsabilità amministrativa da reato della Società (di cui uno dei due imputati era stato riconosciuto essere amministratore di fatto), disponendo altresì la confisca del profitto del reato ai sensi dell’art. 19 D. Lgs. n. 231/2001.
La Società ricorreva per Cassazione articolando sei motivi di ricorso, due dei quali – secondo i giudici di legittimità – meritevoli di accoglimento: il primo in relazione alla corretta qualificazione del reato presupposto; il secondo – ciò che maggiormente rileva ai fini della presente trattazione – in relazione alla corretta quantificazione del profitto oggetto di confisca ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001.
Brevemente, in relazione al primo dei due motivi, la Suprema Corte accoglieva le doglianze della Società secondo cui la Corte d’Appello avesse del tutto omesso qualsiasi valutazione circa la doverosa riqualificazione giuridica del fatto ai sensi del diverso art. 640, co. 1 c.p., il quale – diversamente dalla fattispecie aggravata ai sensi dell’art. 640, co. 2 n. 1 – non è previsto quale reato presupposto ai sensi dell’art. 24 D. Lgs. n. 231/2001.
Maggiore interesse, invece, desta il secondo motivo di ricorso: la Suprema Corte, infatti, ha ritenuto manifestamente illogica la motivazione adottata dalla sentenza impugnata per individuare il quantum del profitto conseguito dall’ente – da sottoporre a confisca ai sensi dell’art. 19 del D. Lgs. n. 231/2001 – essendo la Corte d’Appello ricorsa ad una definizione “equitativa” dello stesso profitto, non prevista dalla normativa di riferimento.
Richiamando autorevoli precedenti pronunce dei giudici di legittimità (su tutte, Cass. SS. UU. “Lucci”, n. 31617 del 26 giugno 2015), la Suprema Corte ha ribadito che la definizione del quantum confiscabile deve essere eseguita individuando, in concreto e rifuggendo da qualsivoglia presunzione equitativa, “il vantaggio economico derivante in via diretta e immediata dalla commissione dell’illecito”.
Pertanto – con specifico riferimento alle ipotesi di reato in contratto, con ciò intendendosi le ipotesi in cui una fattispecie di reato intervenga nella fase di formazione della volontà contrattuale o nella fase esecutiva del rapporto contrattuale perfezionato – ove il profitto derivi dall’esecuzione viziata di un rapporto sinallagmatico, il profitto confiscabile dovrà essere identificato al netto delle utilità conseguite dalla controparte danneggiata in esecuzione delle prestazioni contrattuali (in senso conforme, Cass. SS. UU. “Fisia Impianti”, sentenza n. 26654/2015).
In alternativa – e solo qualora la quantificazione in concreto del “profitto netto” confiscabile non sia di immediata definizione per la complessità del rapporto contrattuale – la Suprema Corte ha ritenuto parimenti legittimi quei meccanismi di quantificazione del profitto confiscabile (già precedentemente avallati dalla Corte di Cassazione con la sentenza “Bottoli”, Sez. II Pen., n. 50710/2019) fondati su “dati notori precisi, desunti da analisi statistiche e corroborati da specifiche norma di riferimento”, che sovente vengono in soccorso soprattutto in relazione a fattispecie di reato commesse nell’esecuzione di contratti di appalti pubblici.
Quale ultimo passaggio, la Corte – nel definire i parametri in base ai quali il Giudice del rinvio avrebbe dovuto provvedere ad una riquantificazione del profitto confiscabile – ha precisato che l’eventuale “complessità del rapporto contrattuale” da cui è scaturito il reato non può legittimare meccanismi di definizione “equitativa” del profitto confiscabile, non potendo il giudice non procedere alla definizione in concreto delle “somme percepite dall’ente quale effetto della condotta […] al netto delle variazioni contrattuali, di eventuali somme restituite e delle somme corrisposte per prestazioni effettivamente erogate”.
In definitiva, con specifico riferimento ai reati in contratto, la definizione del profitto confiscabile si allontana dalla nozione di “ricavo” e tende, invece, verso il diverso concetto di “utile”, inteso quale differenza positiva fra “ricavi e costi”: fra questi, pertanto, sono da considerarsi anche le prestazioni erogate, in adempimento del sinallagma contrattuale, a beneficio della controparte danneggiata.