La società è responsabile per l’illecito amministrativo dipendente dal reato di riciclaggio, ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, per il quale è indagato il suo amministratore unico, se le somme di provenienza delittuosa versate nella società sono state successivamente impiegate per adempiere alle obbligazioni tributarie.
E’ questo il principio espresso dalla Corte di cassazione, II Sez., con la sentenza n. 35362/2024, a seguito della quale veniva confermato il sequestro preventivo delle somme oggetto di bonifici eseguiti dal legale rappresentante ed entrati nella disponibilità della società.
L’interessante vicenda prendeva le mosse dall’ordinanza, poi impugnata per cassazione, emessa dal Tribunale del riesame di Trieste, che, a seguito di istanza di riesame proposta dai difensori di due società, confermava quanto disposto con l’ordinanza dal G.i.p. che aveva ordinato il sequestro preventivo di distinte somme di denaro ad una società, in relazione all’illecito amministrativo previsto all’art. 25 octies d.lgs. 231/2001 (riciclaggio).
La somma sequestrata ammontava ad euro 156.625,00 ed era stata oggetto di bonifici disposti in favore delle società.
Agli enti si contestavano diverse condotte di riciclaggio poste in essere dall’amministratrice unica e realizzate a vantaggio della persona giuridica, che aveva beneficiato della disponibilità della somma di provenienza delittuosa per proseguire l’attività d’impresa, anche mediante l’adempimento delle obbligazioni tributarie.
Avverso tale decisione proponevano ricorso per cassazione, a mezzo di difensori, le due società. La difesa lamentava il difetto di motivazione, circa la natura e la consistenza del profitto che si assumeva formare oggetto del sequestro finalizzato alla confisca. Le somme indicate come corrispondenti al profitto del reato di reimpiego, in realtà rappresenterebbero esclusivamente la disponibilità finanziaria ottenuta dalla società al fine di adempiere alle obbligazioni assunte.
Mancherebbe, dunque, qualsiasi tipo di profitto nell’operazione contestata come illecita, tanto nei confronti della persona fisica che aveva operato, tanto nei confronti della società, difettando il vantaggio patrimoniale o l’incremento monetario.
Con ulteriore deduzione specifica, si lamentava la violazione di legge relativamente all’art. 19 comma 2, d.lgs. 231/2001, nonché 240 bis c.p., in relazione al presupposto del sequestro per equivalente: la qualificazione operata dal Tribunale del riesame non era stata, stando alla ricorrente, corroborata da un supporto logico e giuridico, a fronte del sequestro preventivo emesso direttamente dal G.i.p.
La Corte di cassazione ha ritenuto il ricorso proposto inammissibile.
Stando ai Giudici di legittimità, in relazione alla sussistenza degli elementi per individuare nelle somme sequestrate il profitto confiscabile occorre prendere come riferimento l’impiego delle stesse – ricevute dalle società attraverso dei bonifici diretti – e la loro destinazione, ossia il pagamento delle obbligazioni fiscali. Stando alle società in questa condotta non si poteva individuare alcun vantaggio patrimoniale, in quanto di trattava di un’operazione che avrebbe comportato l’assunzione del debito nei confronti del socio finanziatore.
Tale ricostruzione non convince la Suprema corte, in quanto colliderebbe con la realtà economico-finanziaria delle società: la disponibilità delle somme conseguite attraverso la condotta di reato realizzata dalla legale rappresentante, ha incrementato il patrimonio della stessa che soltanto attraverso questa operazione ha potuto adempiere alle obbligazioni tributarie.
La valutazione dell’esistenza del profitto va operata tenendo conto del momento del reimpiego, che attribuisce alla società un sicuro incremento patrimoniale, la cui destinazione non rileva per escludere il profitto realizzato in precedenza. La deduzione relativa alla pertinenzialità del denaro sequestrato rispetto al denaro costituente il profitto è dunque del tutto inconferente, trattandosi di sequestro per equivalente.
Inoltre, la cassazione ha precisato come la stessa misura cautelare disposta in precedenza avesse fornito degli utili elementi sintomatici del pericolo di dispersione del denaro, ricollegabili sia all’immediata destinazione delle somme per saldare i debiti verso l’erario (somme evidentemente non recuperabili), sia alla tendenza all’occultamento – quindi alla sottrazione – del denaro nell’ambito dell’attività d’impresa, come testimoniato dal rinvenimento di un significativo quantitativo di denaro presso la sede della società.
L’art. 5 del d.lgs. 231/2001 stabilisce quello che si potrebbe considerare il criterio oggettivo di imputazione dell’illecito amministrativo agli enti ossia quando il reato presupposto sia stato commesso, da un soggetto apicale o a questi subordinato, nell’ interesse o a vantaggio dell’ente. Tali criteri sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell’interesse esprime una valutazione teleologica del reato, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito (Sent. Sezioni Unite Thyssenkrupp n. 38343/2014).
Dunque, mentre il criterio del vantaggio fa riferimento al conseguimento, in concreto, di un’utilità economica, quello dell’interesse implicherebbe la sola finalizzazione del reato ad un’utilità, senza richiedere l’effettivo conseguimento della stessa.
Il caso affrontato dalla Corte è esemplificativo di come possano essere integrati i due criteri nel caso di una contestazione alla società dell’illecito amministrativo che vede come reato presupposto quello di riciclaggio.
La società, attraverso un’operazione delittuosa, ha visto il proprio patrimonio incrementarsi (vantaggio) e, in seguito, grazie ai bonifici ricevuti, ha potuto adempiere le obbligazioni tributarie (interesse). Infatti, le somme di denaro – di provenienza illecita – erano state ricevute in assenza di alcun legame funzionale o di rapporti commerciali con l’ente che aveva erogato i bonifici e che operava in violazione delle norme tributarie.
E’ verosimile, poi, che senza la somma erogata non si sarebbe realizzato l’adempimento dell’obbligazione tributaria e, di conseguenza, la società avrebbe rischiato di essere sottoposta ad iniziative esecutive a o procedure di liquidazione giudiziale, che l’avrebbero, di fatto, esclusa dal mercato.