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Rinvio a giudizio degli enti. Differenze fra codice di rito e d.lgs. 231/2001

Rinvio a giudizio degli enti: non è abnorme l’ordinanza con cui il giudice del dibattimento abbia dichiarato la nullità del decreto di citazione diretta a giudizio ritenendo che, nei confronti degli enti, l’azione penale debba essere esercitata nelle forme previste dal d. lgs. 231/2001, distinte da quelle previste dal codice di procedura penale.

E’ quanto è stato affermato dalla Corte di cassazione, sez. IV, con la sentenza n. 40724/2024.

La vicenda sottoposta all’attenzione della Suprema Corte traeva origine dall’ordinanza emessa dal Tribunale di Rimini, il quale dichiarava la nullità del decreto di citazione diretta a giudizio per vizio di esercizio dell’azione penale, con riferimento alla posizione di due s.r.l.

Il Tribunale romagnolo riteneva, in particolare, che l’azione penale, nei confronti degli enti, si sarebbe dovuta esercitare nelle forme previste dall’art. 59 d.lgs. 231/2001, che rimanda espressamente all’art. 407 bis c.p.p..

Avverso l’ordinanza richiamata proponeva ricorso per cassazione il Procuratore generale, sostenendo l’abnormità del provvedimento impugnato: da un lato, la patologia individuata dal Tribunale come nullità non sarebbe prevista fra quelle sanzionate dal codice di rito; dall’altro, in tema di responsabilità degli enti, si devono osservare non solo le disposizioni sulla composizione del Tribunale, ma anche le disposizioni processuali collegate ai reati dai quali l’illecito amministrativo dipende.

Stando al ricorrente, l’interpretazione dell’art. 59 d.lgs. 231/2001 fornita dal Tribunale non avrebbe tenuto conto di quei delitti per i quali non è previsto l’esercizio dell’azione penale con citazione diretta. E’ pur vero che l’ampliamento del novero dei reati presupposto impone un conseguente ampliamento delle forme con le quali si può esercitare l’azione penale, in relazione alle diverse regole previste per i diversi reati.

La Suprema Corte, rigettando il ricorso, ha ribadito che il provvedimento non presenta profili di abnormità dal momento che, anche qualora lo si definisca “espressione di un potere esercitato male”, esso non si colloca al di fuori del sistema normativo.

Infatti, essendo espressione di un potere che l’ordinamento processuale attribuisce al giudice – ossia quello di dichiarare la nullità degli atti in base ai quali si è instaurato il rapporto processuale – non determina una stasi indebita del procedimento: il P.M., infatti, potrebbe procedere ad un nuovo esercizio dell’azione penale senza incorrere in alcuna nullità processuale, come previsto dall’art. 59 d.lgs. 231/2001.

E’ stato sottolineato, poi, che, per escludere che al P.M. venga imposto il compimento di un atto nullo, le questioni poste dal ricorso e affrontate anche nella requisitoria del Procuratore generale e nelle memorie depositate dalla difesa, sono di natura interpretativa: nonostante di recente si sia ampliato sempre di più il novero dei reati-presupposto richiamato dal d.lgs. 231/2001, non si è tenuto conto dei relativi profili processuali, quali, ad esempio, se per alcuni di essi sia prevista (o meno) la citazione diretta a giudizio.

Il Legislatore, pur essendo intervenuto di recente con il d. lgs. 19 marzo 2024, n. 31 («Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, di attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari»), per adeguare la normativa, non ha inteso modificare il dettato normativo circa le forme di esercizio dell’azione penale nei confronti degli enti.

Infine, la Corte ha ricordato che, ai sensi dell’art. 38, comma 2, d. lgs. 231/2001, sono previste deroghe al sistema del simultaneus processus, tra cui quella che ammette la trattazione separata quando

  1. è stata ordinata la sospensione del procedimento ai sensi dell’art. 71 del c.p.p.;
  2. il procedimento è stato definito con il giudizio abbreviato o con l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 del c.p.p., ovvero è stato emesso il decreto penale di condanna;
  3. l’osservanza delle disposizioni processuali lo rende necessario (come nel caso in esame).

 

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