Ai fini dell’applicazione delle sanzioni interdittive, è sufficiente che sussista uno dei due presupposti indicati nel primo comma dell’art. 13, costituiti dal profitto di rilevante entità ovvero dalla reiterazione degli illeciti.
Con la sentenza n. 17371/2023, II sez., la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sui presupposti di irrogazione della misura dell’interdizione dall’esercizio dell’attività imprenditoriale.
Nel caso in esame, il Tribunale del riesame di Monza confermava la misura cautelare dell’interdizione dall’esercizio dell’attività commerciale applicata nei confronti di una società ricorrente, ritenuta responsabile dell’illecito dipendente da reato di cui all’art. 25 octies d.lgs. 231/2001, commesso dall’amministratore della stessa.
Avverso tale decisione la società ricorreva per Cassazione lamentando la violazione di legge in relazione alla ritenuta insussistenza dei gravi indizi e alla mancanza di un collegamento tra reato presupposto ed ente.
In secondo luogo, la società lamentava l’omessa indicazione degli elementi che hanno portato il giudice a ritenere sussistente il pericolo di reiterazione, l’omessa valutazione dei profili di adeguatezza e proporzionalità della misura e la mancata valutazione delle deduzioni difensive.
In particolare, secondo il ricorrente, era stata erroneamente stabilita una misura cautelare non corrispondente a sanzione applicabile in via definitiva, non avendo nemmeno verificato la sussistenza di un profitto di rilevante entità e la reiterazione degli illeciti, così violando l’art. 13 del decreto legislativo 231/2001.
La Corte ha ritenuto infondato il ricorso.
Per prima cosa, la Corte ha sottolineato come il collegamento fra delitti presupposti ed ente risulterebbe chiaramente delineato nella motivazione del provvedimento impugnato.
I giudici hanno poi precisato che l’articolo 25 octies d.lgs. 231/2001 (delitto di riciclaggio), prevede che in relazione ai delitti presupposto richiamati, si debbano applicare all’ente le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9 comma 2. Nel novero di tali sanzioni interdittive è ricompresa l’interdizione dall’esercizio dell’attività.
La Suprema Corte ha poi ribadito che, ai fini dell’applicazione di tali misure in sede cautelare, è sufficiente la verifica della sussistenza del profitto di rilevante entità, oppure del pericolo di reiterazione dell’illecito, non essendo richiesto il cumulo dei due requisiti.
In particolare, per quanto riguarda la reiterazione, è corretta la motivazione che fa leva sul collegamento tra l’attività delittuosa e l’attività commerciale svolta dall’ente.
Quanto alla adeguatezza e proporzionalità della misura, la Suprema Corte precisa che valorizzando la reiterazione delle condotte e segnalando come l’operatività delittuosa interessasse l’attività svolta in concreto dalla società, è ragionevole nel quantum, se rapportata alla gravità dei fatti e al grado di compromissione della struttura.
Va rammentato, in questa sede, che la persona giuridica potrà essere oggetto di sanzione interdittiva a seconda della gravità del reato, partendo dai casi più lievi, che potranno risolversi in semplici limitazioni settoriali dell’autonomia dell’ente, passando a casistiche più gravi, che possono arrivare a causare una vera e propria paralisi dell’attività imprenditoriale.
Nell’ottica di una crescente invasività e varietà delle sanzioni interdittive, si può agevolmente ricavare l’obiettivo del legislatore del 2001: consentire al giudice di colpire la persona giuridica proprio nella sua essenza: la possibilità di auto-organizzarsi. Tale sanzione infatti priva l’ente della sua libertà di auto determinazione, con enormi e drastiche ricadute dal punto di vista economico.