La segnalazione di un dipendente di un illecito avvenuto nel contesto aziendale non esime dalla propria responsabilità. La normativa di tutela del dipendente che segnali illeciti commessi da altri soggetti (c.d. whistleblowing), salvaguardia il medesimo dalle sanzioni che potrebbero conseguire a suo carico secondo le norme disciplinari o da reazioni ritorsive del datore di lavoro dirette ed indirette conseguenti alla sua denuncia.
Tuttavia, non può costituire un’esimente per gli autonomi illeciti che egli, da solo o in concorso con altri responsabili, abbia commesso, in quanto si potrebbe “valutare il ravvedimento operoso o la collaborazione al fine di consentire gli opportuni accertamenti nel contesto dell’apprezzamento, sotto il profilo soggettivo, della proporzionalità della sanzione da irrogarsi nei confronti del medesimo”.
Dunque, l’aver denunciato i comportamenti scorretti o illeciti dei colleghi non salva il whistleblower, che abbia commesso le medesime violazioni cui sono ricollegate delle sanzioni penali, amministrative o disciplinari. Lo scudo previsto dalla normativa whistleblowing per il denunciante contro eventuali ritorsioni da parte del datore di lavoro, o comunque dei suoi dirigenti, non può diventare una causa di esclusione della responsabilità per i comportamenti illeciti da lui autonomamente posti in essere.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 9148/2023, in materia di whistleblowing, ha respinto il ricorso di una infermiera di un’azienda ospedaliera pubblica: questa era stata sospesa per quattro mesi per aver svolto attività retribuita non autorizzata presso una struttura privata, per circa otto anni, dietro il corrispettivo di circa 30mila euro. In merito, secondo i giudici della Cassazione, non gioverebbe a nulla il fatto che ella avesse denunciato l’analogo comportamento di altri colleghi.
La Suprema Corte mette, in questo modo un freno a questo tipo di “pentitismo” in ambito lavorativo, chiarendo che non esistono salvacondotti per chi denuncia e che, tuttalpiù, il giudice dovrà tenere conto, nella graduazione della sanzione, del ravvedimento e del comportamento conseguente al fatto illecito.
La fattispecie prevista dall’articolo 54-bis del Dlgs n. 165 del 2001, in materia di pubblico impiego, richiamato erroneamente in ballo dalla ricorrente, infatti, tutela le segnalazioni effettuate dal dipendente ai propri superiori di illeciti altrui, con l’effetto di impedire che il medesimo, in ragione di tali segnalazioni, possa essere soggetto a sanzioni, licenziamento o misure direttamente o indirettamente discriminatorie, per motivi collegati in modo diretto o indiretto alla denuncia.
Tuttavia, prosegue la Suprema Corte, “l’applicazione al dipendente di una sanzione per comportamenti illeciti suoi propri resta al di fuori della copertura fornita dalla norma, che non esime da responsabilità chi commetta un illecito disciplinare per il solo fatto di denunciare la commissione del medesimo fatto o di fatti analoghi ad opera di altri dipendenti”.
Infine, nulla vieta all’ordinamento di riconoscere delle attenuanti oppure, quando possibile, di valorizzare un comportamento penitente sotto il profilo della valutazione di proporzionalità, come è normale che sia. Occorre tuttavia tenere a mente che l’articolo 54-bis non riconosce e non è tenuto a riconoscere, un’esimente rispetto a tali autonomi illeciti.